Lilli Gruber nuda

Nel settembre 1992 i periodici “Novella 2000” e “Oggi” pubblicano alcune fotografie che ritraggono la giornalista Dietlinde Gruber (meglio nota come “Lilli”) nuda ai bordi della piscina della villa di famiglia, delimitata da un muro di recinzione. Le foto sono state scattate da A.E., fotografo che collabora con i più noti giornali scandalistici. Le foto vengono pubblicate insieme ad un’intervista dello stesso A.E., il quale spiega le difficoltà che ha dovuto superare per sorprendere la Gruber nuda, avendo dovuto arrampicarsi su un ostico albero munito di potente teleobiettivo.

La Gruber cita in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la R.C.S., il direttore responsabile, l’articolista e il fotografo A.E. Il Tribunale accoglie la domanda condannando i convenuti al pagamento della somma complessiva di 100 milioni di Lire. Secondo il Tribunale “non è ipotizzabile una pubblicazione legittima di immagini attinenti alla vita privata di un soggetto, realizzata con una condotta che integri la fattispecie di cui all’art. 615 bis cod.pen.”. Pertanto, “costituisce violazione del diritto alla riservatezza l’utilizzo, consistente nella diffusione a mezzo stampa, di immagini attinenti alla vita privata indebitamente carpite in luogo privato con strumenti professionali”.

(Trib. Milano 17 novembre 1994)
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Lilli Gruber, giornalista, già all’epoca era certamente un personaggio pubblico. E’ quindi comprensibile l’interessamento di “Novella 2000” alla sua nudità. E il fatto che la nudità della Gruber abbia ben poco a che vedere con la sua attività professionale, colloca il caso in questione nella problematica della cronaca scandalistica.

Tuttavia, la violazione del diritto alla riservatezza della giornalista qui è evidente. Come giustamente rilevato dal Tribunale di Milano, la sua immagine è stata attinta da un luogo incontestabilmente privato. La condotta del fotografo (e di “Novella 2000” che ha pubblicato le fotografie) vìola l’art. 615 bis del codice penale (“Interferenze illecite nella vita privata”) che punisce sia chi “mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’art. 614”, ossia il domicilio o altri luoghi di privata dimora (comma 1°), sia chi “rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei modi indicati nella prima parte di questo articolo” (comma 2°).

Ineccepibile, quindi, la decisione del Tribunale di Milano, come è inutile dilungarsi sul caso stesso. Tuttavia, appare interessante affrontare la questione da un’altra visuale. Facendo finta, cioè, che la Gruber fosse stata fotografata non all’interno della villa di famiglia, ma in un luogo pubblico. E definire i limiti entro i quali la pubblicazione sarebbe stata legittima.

Ipotizziamo che la Gruber fosse stata colta nuda, distesa in una pubblica spiaggia, più o meno consapevole di essere lontana, o quantomeno non riconoscibile, da occhi indiscreti. In questo caso la pubblicazione sarebbe stata legittima. La Gruber, in quanto personaggio noto, non può vantare un diritto all’immagine. E il fatto di essere colta in un luogo pubblico fa venir meno qualsiasi pretesa basata sulla violazione del diritto alla riservatezza. Ciò in quanto la Gruber ha manifestato un consenso implicito alla acquisizione della propria immagine da parte del fotografo (e alla conseguente pubblicazione), che si è limitato ad espletare un’attività marginale per poter raccogliere la notizia. Consenso in ogni caso indispensabile per poter procedere alla pubblicazione della foto, in quanto la cronaca scandalistica, non basandosi su un reale interesse pubblico, implica sempre una violazione del diritto alla riservatezza; e, per questo motivo, necessita sempre del consenso quantomeno implicito del personaggio pubblico.

Ipotizziamo, invece, che la Gruber si fosse posizionata su una spiaggia tecnicamente pubblica, ma raggiungibile soltanto a nuoto o con una barca. E che il fotografo A.E., per poter acquisirne l’immagine, avesse dovuto adottare gli stessi accorgimenti presi nel caso affrontato dal Tribunale di Milano: montare un potente teleobiettivo e arrampicarsi su un albero per poter inquadrare la giornalista. Qui rilevano due comportamenti: quello della Gruber, che ha voluto appartarsi in un luogo ben nascosto proprio per sfuggire ad occhi indiscreti; quello del fotografo, che ha dovuto compiere un significativo sforzo, sia fisico che tecnico, per poter catturare l’immagine della Gruber.

In quest’ultima ipotesi vi è evidentemente un’apprensione attiva della notizia, in quanto il fotografo ha dovuto spiegare mezzi fisici e tecnici per acquisirla. Ha dovuto, cioè, vincere la naturale ritrosia della Gruber ad essere fotografata nuda; ritrosia ampiamente comprovata dalle caratteristiche del luogo scelto dalla Gruber. Qui non si può in alcun modo desumere un suo consenso implicito alla pubblicazione della foto. E viene meno il presupposto su cui poggia la legittimità della cronaca scandalistica.