La falsa notizia Rai

Il 31 gennaio 1980 sul quotidiano “Alto Adige” viene data la notizia dell’assoluzione di A.M., un noto esponente politico locale. Ma nell’articolo si legge anche, contrariamente al vero, che nei suoi riguardi la procura della Repubblica di Bolzano ha da qualche mese avviato un procedimento penale per i reati di calunnia e associazione per delinquere.

A.M. querela per diffamazione articolista e direttore responsabile, che si giustificano affermando di aver pubblicato la notizia dopo averla appresa dalla Rai. Vengono condannati sia in Tribunale che in Corte d’Appello. La vicenda approda in Corte di Cassazione.

La Suprema Corte conferma la sentenza della Corte d’Appello, con motivazioni che muovono da un’interpretazione restrittiva del concetto di verità putativa. Alla difesa non giova prospettare la particolare attendibilità di una notizia diffusa dalla Rai “per il prestigio e per la specifica competenza che la qualificano” e per il fatto che “nell’ambito della radiotelevisione di Stato sussistono maggiori controlli e garanzie” che fanno della Rai “una fonte privilegiata”.

La Suprema Corte rigetta le argomentazioni difensive minandone la premessa. Il concetto di attendibilità della fonte informativa – si legge nella sentenza di per sé non è accettabile, perché esprime “una valutazione soggettiva e probabilistica in netto contrasto con il concetto stesso di diritto di cronaca”. Non esistono fonti informative privilegiate, tali cioè da esonerare il giornalista dall’obbligo di verificare la notizia “in funzione dell’assolvimento dell’obbligo inderogabile di rispettare la verità sostanziale” e di “dare la prova della cura posta negli accertamenti esplicati per vincere ogni dubbio ed incertezza prospettabili in ordine a quella verità”.

Se un giornalista sostiene la Suprema Corte – potesse considerare vera una notizia ed omettere i dovuti controlli per il sol fatto che è stata diffusa da un’altra fonte giornalistica, per quanto autorevole e seguita questa possa essere, “le diverse fonti propalatrici delle notizie, attribuendosi reciproca credibilità, finirebbero per rinvenire l’attendibilità in se stesse”.

(Cass. 30 giugno 1984, n. 1820)
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Nel caso in questione, la difesa ha posto l’accento sul prestigio e la competenza che contraddistinguono la Rai. L’autorevolezza propria della televisione di Stato dispenserebbe ogni giornalista dall’obbligo di verificare la fondatezza della notizia. Chi pubblicasse una notizia falsa, ma appresa dalla Rai, potrebbe sempre invocare la verità putativa.

Ma la Corte di Cassazione ha respinto questa argomentazione. Non si può considerare vera una notizia solo perché è stata resa pubblica da un organo di informazione autorevole. Perché non esistono, a detta della Suprema Corte, fonti informative privilegiate, tali da esonerare i giornalisti dall’obbligo di verificare i fatti.

E’ una decisione che va condivisa in pieno. Nell’acquisire la notizia, un organo di informazione non può affidarsi ad altro organo di informazione, per quanto prestigioso sia, principalmente per tre ragioni.

La prima. La funzione del giornalista è quella di apprendere un fatto dall’interno della società civile e restituirlo alla collettività sotto forma di notizia. Quando il giornalista pubblica ad occhi chiusi una notizia appresa da un soggetto avente la sua stessa funzione, rinuncia non soltanto alla ricerca della verità, ma alla stessa funzione sociale di fare informazione.

La seconda. Se si legittimasse un simile comportamento si favorirebbe il sorgere di una gerarchia delle fonti informative. Si incoraggerebbero le fonti di grado “inferiore” a rinunciare ad una ricerca attiva della verità appiattendosi sulle informazioni rese da fonti di grado “superiore”, nella sicurezza delle prime che un eventuale errore non avrebbe conseguenze in quanto indotto dalle seconde. E’ un’idea che metterebbe a repentaglio lo stesso concetto di pluralismo dei mezzi di informazione. Questo, infatti, è garantito non solo dalla indipendenza dei mezzi di informazione dai pubblici poteri, ma anche dalla totale autonomia tra i mezzi stessi. Non gioverebbe alla collettività, oltre che alla dignità professionale dello stesso giornalista, spingere quest’ultimo a rinunciare al rapporto diretto con il fatto notizia e a ricorrere alla mediazione di altri organi di informazione nella ricerca della verità.

La terza. Riconoscere la verità putativa al giornalista che riprendesse una notizia dalla Rai, porterebbe in sostanza ad attribuire alla Rai la natura di fonte ufficiale. E se si considera che il concetto di fonte ufficiale ne implica necessariamente la totale identificazione con l’apparato dello Stato, trattare la Rai alla stregua di fonte ufficiale significherebbe accogliere una concezione da regime: la televisione di Stato come organo dei pubblici poteri, che è l’esatto contrario di ciò che avviene in una democrazia. In realtà, il carattere statale di una televisione non fa altro che attribuire all’informazione da essa resa natura di servizio pubblico, garantendo la completezza, l’obiettività, l’imparzialità delle notizie.