LA PAR CONDICIO

Obiettività e completezza sono i criteri cui deve ispirarsi l’informazione. Essi sono menzionati in ogni legge che si è incaricata di disciplinare in maniera organica il sistema radiotelevisivo. A partire dalla L. 14 aprile 1975 n. 103, passando attraverso la L. 6 agosto 1990 n. 223 (“Legge Mammì”) e la L. 3 maggio 2004 n. 112 (“Legge Gasparri”), fino ad arrivare al D.Lgs. 31 luglio 2005 n. 177 (“Testo Unico della radiotelevisione”), tali criteri caratterizzano il sistema radiotelevisivo quale “servizio di preminente interesse generale”. E, logicamente, la piena osservanza di questi criteri garantisce il rispetto del requisito della verità, il caposaldo del diritto di cronaca.

Ma negli anni ’90 ha fatto la sua comparsa un concetto destinato a complicare non di poco la questione: il concetto di par condicio. Come è noto, riguarda l’accesso di tutti i soggetti politici al mezzo radiotelevisivo in condizioni di parità, in modo da garantire a ciascuna forza rappresentata in Parlamento la medesima possibilità di comunicare con il pubblico. Una questione postasi con urgenza a seguito della materializzazione di un macroscopico conflitto di interessi: quello di Silvio Berlusconi. Da un lato, fondatore e capo di una forza politica cospicuamente rappresentata in Parlamento. Dall’altro, proprietario di tre reti televisive nazionali che quotidianamente trasmettono Tg, programmi di comunicazione politica e di approfondimento informativo senza sottostare ai poteri della Commissione Parlamentare di Vigilanza, istituita con la L. n. 103/1975, che controlla solo la concessionaria pubblica Rai.

Tecnicamente il concetto di par condicio non ha nulla a che vedere con il diritto di cronaca, perché è estraneo al concetto di informazione. Nata, in osservanza del pluralismo, per garantire a tutte le forze politiche eguali possibilità di comunicare con gli elettori, la par condicio riguarda il rapporto tra forze politiche ed elettori, ossia la comunicazione politica. Non invece quel rapporto, mediato dalla figura del giornalista, tra fatto e collettività che è alla base dell’informazione. “Informazione” e “comunicazione politica” sono due realtà opposte. La differenza è evidente sia nel soggetto generatore che nell’oggetto. Con l’informazione, che è generata dal giornalista, si porta a conoscenza della collettività un fatto. Con la comunicazione politica, che è generata dal soggetto politico, si cerca di convincere l’elettore della bontà del proprio modo di governare il paese, comunicandogli una valutazione, di parte, che come tale divergerà da quella del politico appartenente a diversa area. Ciò in quanto lo scopo della comunicazione politica non è di informare il telespettatore, ma di orientare la scelta dell’elettore.

Ed essendoci diversi modi di concepire la gestione di uno Stato democratico, ecco che il tentativo di convincere gli elettori a votare per una forza politica piuttosto che per un’altra logicamente può essere regolato da un principio di parità nell’accesso ai mezzi di comunicazione. Ne consegue l’utilità e l’opportunità della par condicio nella comunicazione politica, ma la sua ontologica inapplicabilità all’informazione. Esistendo il fatto necessariamente nella sua unicità, esiste una sola verità. Una verità di per sé garantita da un’informazione obiettiva, completa, imparziale. La par condicio applicata all’informazione finisce per fuorviare il pubblico, allontanandolo dalla verità.

La differenza tra informazione e comunicazione politica si scorge anche in vari passaggi della L. n. 28/2000, che impone la par condicio nei programmi di comunicazione politica a prescindere dal periodo in cui vengono trasmessi, e detta regole per l’informazione nel periodo elettorale. L’art. 1 impone “parità di condizioni nell’esposizione di opinioni e posizioni politiche, nelle tribune politiche, nei dibattiti, nelle tavole rotonde, nella presentazione in contraddittorio di programmi politici, nei confronti, nelle interviste e in ogni altra trasmissione nella quale assuma carattere rilevante l’esposizione di opinioni e valutazioni politiche”. Ma al tempo stesso specifica che la norma non si applicaalla diffusione di notizie nei programmi di informazione”.

Per i programmi di informazione l’art. 5 detta regole solo per il periodo di campagna elettorale. Durante questo periodo “è vietato fornire, anche in forma indiretta, indicazioni di voto o manifestare le proprie preferenze di voto”; registi e conduttori devono tenere “un comportamento corretto ed imparziale nella gestione del programma, così da non esercitare, anche in forma surrettizia, influenza sulle libere scelte degli elettori”.

E’ dunque la legge stessa a riferire la par condicio soltanto alla comunicazione politica, limitandosi invece ad impedire che nei programmi di informazione, durante la campagna elettorale, vengano date indicazioni di voto e a sottolineare l’esigenza di imparzialità dei loro conduttori.

Tuttavia, va detto che nella pratica normativa si è imposta una distorsione del concetto di informazione, che ha portato ad una sua assimilazione alla comunicazione politica, con la conseguenza di estendere all’informazione le regole della par condicio addirittura per il periodo non elettorale. Principali responsabili di ciò sono proprio i due organi incaricati di vigilare sulla correttezza dell’informazione e sul rispetto della par condicio. Per la Rai, la Commissione Parlamentare per l’Indirizzo Generale e la Vigilanza dei Servizi Radiotelevisivi; per le reti private, l’Autorità per la Garanzia nelle Comunicazioni (“Authority”).

Con Provvedimento 18 dicembre 2002 la Commissione di Vigilanza, oltre a dettare specifiche regole per la comunicazione politica, ha stabilito all’art. 11 (sotto la dicitura “Informazione”) che “ogni direttore responsabile di testata è tenuto ad assicurare che i programmi di informazione a contenuto politico parlamentare attuino un’equa rappresentazione di tutte le opinioni politiche assicurando la parità di condizioni nell’esposizione di opinioni politiche presenti nel Parlamento nazionale e nel Parlamento europeo”. Il senso è chiaro. Il conduttore di un programma di approfondimento informativo, laddove verte su fatti politicamente rilevanti, è sostanzialmente costretto ad invitare politici di ogni schieramento, delegando così il compito di informare la collettività sulla gestione della cosa pubblica a persone tutt’altro che imparziali.

Di gran lunga peggiore è il Provvedimento 11 marzo 2003 della stessa Commissione di Vigilanza, il cui art. 1 statuisce che “Tutte le trasmissioni di informazione – dai telegiornali ai programmi di approfondimento – devono rispettare rigorosamente, con la completezza dell’informazione, la pluralità dei punti di vista e la necessità del contraddittorio”. Ciò in nome di un “pluralismo […] che deve essere rispettato dalla azienda concessionaria nel suo insieme e in ogni suo atto, nonché dalle sue articolazioni interne (divisioni, reti e testate), e deve avere evidente riscontro nei singoli programmi”.

La tendenza è proseguita a livello di legge ordinaria. Dapprima con l’art. 6, comma 1° lett. c), L. n. 112/2004 (“legge Gasparri”), poi con l’art. 7, comma 2° lett. c), D.Lgs. n. 177/2005 (“Testo Unico della radiotelevisione”). Entrambe le disposizioni recitano testualmente: “La disciplina dell’informazione radiotelevisiva, comunque, garantisce […] l’accesso di tutti i soggetti politici alle trasmissioni di informazione e di propaganda elettorale e politica in condizioni di parità di trattamento e di imparzialità”.

Dal canto suo, l’Authority ha fatto proprie queste regole nel 2006, anche con riferimento al periodo non elettorale, estendendole alle emittenti nazionali private. La Delibera n. 22/06, dopo aver premesso che “l’attività di informazione televisiva […] deve garantire […] l’accesso di tutti i soggetti politici alle trasmissione di informazione e di propaganda elettorale e politica in condizioni di parità di trattamento e imparzialità” (quindi riportando fedelmente quanto già stabilito dalla “legge Gasparri” e dal Testo Unico), all’art. 1, comma 2°, impone “l’equilibrio delle presenze” nei programmi di informazione e di approfondimento.

Dunque, mentre la L. n. 28/2000 pone sì vincoli ai programmi di informazione, ma soltanto in campagna elettorale e comunque mai consistenti in una applicazione della par condicio, sotto la vigenza di tale legge la Commissione di Vigilanza e l’Authority, operando una evidente forzatura del dato normativo, hanno esteso le regole della par condicio all’informazione addirittura in periodo non elettorale. Obiettività, completezza, imparzialità non bastano più nei programmi di informazione. Occorre sempre per dirla con la Commissione di Vigilanza il “rigoroso rispetto” della “pluralità dei punti di vista e la necessità del contraddittorio” persino nei telegiornali, nonostante l’art. 1, comma 2°, L. n. 28/2000 vieti espressamente l’applicazione delle disposizioni sui programmi di comunicazione politica “alla diffusione di notizie nei programmi di informazione”.

Con la successione ora vista di leggi e provvedimenti, la distorsione del concetto di informazione raggiunge il culmine. Si arriva ad applicare ai programmi di informazione (che hanno il compito fare emergere la verità) gli schemi della comunicazione politica (dove ciascuno dei contendenti illustra al pubblico la “propria” verità), in nome di un pluralismo il cui significato viene qui completamente frainteso.

Se infatti il pluralismo politico, correttamente inteso, vuole che il sistema radiotelevisivo testimoni e illustri obiettivamente le diverse realtà politiche operanti nel paese, qui accade paradossalmente che l’attuazione del pluralismo, erroneamente inteso, va a scapito della verità. Questa non può emergere se l’informazione viene forzatamente basata non sul fatto obiettivo, ma sulle opposte interpretazioni che di esso forniscono parti portatrici di interessi contrapposti. E’ come pensare di fare emergere la verità in un processo basandosi esclusivamente sulle argomentazioni degli avvocati delle parti, anziché sulle prove.

Tra l’altro, la stessa L. n. 28/2000, tuttora in vigore, mostra chiaramente come la comunicazione politica vada concentrata soprattutto in campagna elettorale. Secondo l’art. 5, comma 4°, nel periodo che va dalla convocazione dei comizi elettorali alla chiusura delle operazioni di voto, “nelle trasmissioni informative riconducibili alla responsabilità di una specifica testata giornalistica […] la presenza di candidati, esponenti di partiti e movimenti politici, membri del Governo, delle giunte e consigli regionali e degli enti locali deve essere limitata esclusivamente all’esigenza di assicurare la completezza e l’imparzialità dell’informazione”, presenze tassativamente vietate “in tutte le altre trasmissioni”. Ciò significa che in campagna elettorale le apparizioni televisive dei politici vanno viste prevalentemente in un’ottica di comunicazione politica.

Da quest’ultima norma emerge che la legge privilegia la comunicazione politica rispetto all’informazione soltanto nel periodo di campagna elettorale. In periodo non elettorale, deve essere l’informazione a prevalere sulla comunicazione politica. La conclusione è logica. In periodo non elettorale, la collettività va informata compiutamente sui fatti, sui risultati della politica. Durante la campagna elettorale, invece, deve darsi a ciascuna forza politica la possibilità di “fare un proprio bilancio” di quanto accaduto e appreso dalla collettività attraverso l’informazione; e cercare di convincere l’elettorato a “tirare le somme” secondo le valutazioni di ciascuna forza politica.

Da tutto ciò consegue che i provvedimenti emanati dagli organi preposti al controllo del sistema radiotelevisivo, laddove assimilano l’informazione, sempre e comunque, alla comunicazione politica, vanno ritenuti illegittimi. E le norme di legge, contenute nella “Gasparri” e nel Testo Unico, nella misura in cui impongono, sempre e comunque, l’applicazione della par condicio all’informazione, tanto da assimilarla alla comunicazione politica, sono in forte odore di incostituzionalità per contrasto con l’art. 21 Cost. I primi andrebbero disattesi e contrastati dinanzi al Tar in caso di applicazione di sanzioni da parte degli organi di controllo; le seconde, in attesa e nella speranza di un intervento correttivo della Corte Costituzionale, andrebbero quantomeno interpretate in maniera tale da salvaguardare il più possibile la libertà di informazione, negando decisamente l’assimilazione dell’informazione alla comunicazione politica.

I PROGRAMMI DI COMUNICAZIONE POLITICA

I PROGRAMMI DI APPROFONDIMENTO INFORMATIVO

I TELEGIORNALI

I PROGRAMMI DI INTRATTENIMENTO