La triste storia di Lady Aids

Nel febbraio 1998 le autorità sanitarie di Ravenna segnalano alla Questura locale le generalità di una donna risultata positiva al test dell’Hiv. E’ una nota prostituta, molto attiva nel ravennate e, soprattutto, molto richiesta per non esigere dai clienti l’uso del profilattico. Partecipa a festini a luci rosse dove si registra un’alta promiscuità sessuale. Secondo i rapporti degli organi sanitari, potrebbe aver contagiato alcune migliaia di persone.

Ricevute queste informazioni, i funzionari della Questura svelano l’identità ai giornalisti. Nel giro di 24 ore, quotidiani e testate giornalistiche televisive nazionali, ma anche estere, pubblicano le generalità e l’immagine della donna, che viene battezzata “Lady Aids”.

Scoppiano le polemiche, ma il Garante interviene solo a maggio. Non con un provvedimento, ma con un “comunicato stampa”, nel quale afferma che “potevano individuarsi modalità di informazione del pubblico assai più selettive rispetto alla divulgazione della fotografia e delle generalità complete dell’interessata, fornendo solo elementi di informazione indiretti (quali il soprannome, i luoghi frequentati, il periodo temporale di riferimento, etc.), in modo da allertare le persone potenzialmente contagiate (che avrebbero poi potuto acquisire informazioni più dettagliate, ad esempio, attraverso numeri verdi o altri servizi di informazione e assistenza), evitando l’esposizione dell’interessata all’attenzione dei mezzi di informazione sia nazionali che esteri”.

(Garante per la Protezione dei Dati Personali, 5 maggio 1999)
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Per valutare il comportamento tenuto dagli organi di informazione, bisogna considerare la normativa vigente all’epoca dei fatti (febbraio 1998) con specifico riferimento al trattamento di dati relativi alla salute.

Già vigeva la legge n. 135/1990, il cui art. 5, comma 4°, prevede che “la comunicazione di risultati di accertamenti diagnostici diretti o indiretti per infezione da HIV può essere data esclusivamente alla persona cui tali esami sono riferiti”. Ma l’obbligo contenuto in questa norma, tuttora in vigore, vincola il personale sanitario, non certo il giornalista. Di conseguenza, non è sulla base di essa che può ritenersi illecita la pubblicazione dell’identità e dello stato di salute della prostituta.

Inoltre, il codice di deontologia dei giornalisti, quello tuttora in vigore, era stato scritto nel novembre 1997, ma sarebbe entrato in vigore soltanto nell’agosto 1998, insieme ai generali limiti imposti al giornalista a tutela della dignità di ogni persona.

Ma all’epoca era in vigore la legge n. 675/1996 (ossia l’antecedente normativo dell’attuale codice della privacy), che prevedeva per il trattamento giornalistico dei dati supersensibili (ossia quei dati “idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”) una disciplina più severa di quella attuale. Il consenso dell’interessato alla loro raccolta e diffusione era imprescindibile, anche nell’attività giornalistica (solo con il D.Lgs. 13 maggio 1998 n. 171 i dati “supersensibili” saranno equiparati agli altri dati sensibili nel trattamento giornalistico). Non essendo risultato che la donna avesse prestato il consenso alla divulgazione della propria sieropositività, si era di fronte ad un caso di gravissima violazione della privacy.

La violazione non si poteva nemmeno giustificare in base all’art. 55 del codice di procedura penale, come proposero alcuni (norma che impone alla Polizia Giudiziaria, tra le altre cose, di impedire che i reati “vengano portati a conseguenze ulteriori”), sul presupposto che la prostituta avesse commesso il reato (continuato) di lesioni personali e che la pubblicizzazione della vicenda avrebbe indotto i contagiati ad una condotta responsabile (anche se non era chiaro per quale motivo chi avesse avuto rapporti sessuali con una prostituta senza adottare precauzioni a tutela della propria persona, le avrebbe poi adottate a tutela di terzi). Comunque, questa norma avrebbe potuto al limite giustificare il solo operato dei funzionari di Polizia, non anche la condotta divulgativa del giornalista.

In definitiva, sulla base della normativa dell’epoca, è pacifico che la pubblicazione della sieropositività della prostituta di Ravenna ha costituito una illecita diffusione di dati sensibili. La presa di posizione del Garante è quindi ineccepibile, soprattutto quando si riferisce alla possibilità di adottare “modalità di informazione del pubblico assai più selettive rispetto alla divulgazione della fotografia e delle generalità complete dell’interessata”. Tuttavia, non si capisce per quale motivo il Garante non abbia fatto cenno alla macroscopica violazione dell’(allora vigente) art. 25, comma 1°, L. n. 675/1996, che dispensava il giornalista dal richiedere il consenso dell’interessato per il trattamento dei dati sensibili “salvo che per i dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.

A questo punto, è interessante valutare come andrebbe risolto questo caso se accadesse oggi. Vale a dire, alla luce delle maggiori garanzie che il codice di deontologia prevede in materia di dati sensibili e dignità della persona, ma in considerazione del maggior potere acquisito dal giornalista nel trattamento dei dati “supersensibili” per effetto del D.Lgs. n. 171/1998, che ha eliminato la regola del consenso.

Punto di partenza è l’art. 10, comma 1°, codice di deontologia, secondo cui “Il giornalista, nel far riferimento allo stato di salute di una determinata persona, identificata o identificabile, ne rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza e al decoro personale, specie nei casi di malattie gravi o terminali, e si astiene dal pubblicare dati analitici di interesse strettamente clinico”. Ebbene, non c’è bisogno di dilungarsi per spiegare che nel caso in questione vi è stata la violazione di tutte le garanzie previste da questa norma a tutela del malato.

L’obbligo contenuto nella norma è categorico. A differenza di altre ipotesi, non ammette eccezioni. Per chiarirne la portata, basta confrontarla con l’art. 8, comma 1°, codice di deontologia. Quest’ultima norma consente al giornalista di pubblicare la notizia o l’immagine di una persona al prezzo della sua dignità quando “ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine”. Cosa, invece, assolutamente vietata dall’art. 10 per la notizia riguardante lo stato di salute di una persona. Qui il diritto alla riservatezza del malato prevale su qualsiasi motivo di rilevanza sociale. E’ una dimostrazione della tutela rafforzata di cui godono i dati relativi alla salute in virtù della loro natura “supersensibile”.

Attualmente non sarebbe giustificata, quindi, la diffusione delle generalità e della fotografia di chi è affetto da HIV, specie in considerazione della gravità della malattia. Anche quando la diffusione può avere una qualche utilità sociale, come quella di porre i potenziali contagiati nelle condizioni di non nuocere ad altri. Una soluzione, dunque, diversa da quella prospettata in Niente gogna mediatica per gli sfruttatori sessuali.

Ma la ragione sta nella diversità di disciplina per i due casi. In quello, la diffusione delle generalità e della fotografia degli arrestati (insieme alla diffusione dei dati giudiziari, proprio in quanto arrestati) è giustificata dai “fini di giustizia e di polizia” di cui parlano l’art. 8, comma 2°, codice di deontologia, e l’art. 97 L. n. 633/1941 (“legge sul diritto d’autore”), sul presupposto del precedente rapporto instaurato tra l’arrestato e un numero indeterminato di “vittime”.

Invece, se pure il comportamento della prostituta di Ravenna, tenuto precedentemente alla pubblicizzazione della vicenda, ha senz’altro riguardato un numero indeterminato di “vittime”, non esiste una norma che individui particolari fini o motivi di interesse pubblico per legittimare la diffusione dei dati sulla salute in violazione del diritto alla riservatezza. Soprattutto quando l’interesse pubblico può essere salvaguardato fornendo “elementi di informazione indiretti (quali il soprannome, i luoghi frequentati, il periodo temporale di riferimento, etc.)” e adottando accorgimenti attraverso i quali le persone potenzialmente contagiate possono “acquisire informazioni più dettagliate, ad esempio, attraverso numeri verdi o altri servizi di informazione e assistenza”, come ha giustamente rilevato il Garante.