Eluana Englaro:
quando la disinformazione
crea il 'vuoto normativo'

Bologna, 9 febbraio 2009

(avv. Antonello Tomanelli)

Anche il più terribile dei drammi umani può essere utilizzato per sferrare un attacco alla magistratura. Ne scaturisce un gran brutto film. Ad Eluana Englaro viene riconosciuto il diritto di rifiutare quei trattamenti sanitari che la mantengono in vita ma in uno stato vegetativo permanente, condizione irreversibile che implica la mancanza di qualsiasi collegamento col mondo esterno. Si accusa la magistratura di averne deciso la morte in presenza di un “vuoto normativo”, ossia in assenza di una qualsiasi norma che legittima l’interruzione dell’alimentazione. Così, Eluana muore di fame e di sete per effetto di un provvedimento emanato da un organo giudiziario che ha creato una norma ad hoc sostituendosi al legislatore, il quale, pur di salvare la vita di Eluana, tenta addirittura la via del decreto legge, stoppata in extremis dal presidente Napolitano per manifesta incostituzionalità.

La bruttezza del film sta nell’aver fatto credere agli italiani che i giudici hanno emesso la decisione al di fuori di una norma giuridica, solo perché non esiste nel nostro ordinamento una legge che prevede il cosiddetto testamento biologico: ossia quella espressa dichiarazione, resa per iscritto e in presenza di un notaio, con la quale un soggetto limita o esclude ogni futuro intervento terapeutico sulla propria persona in caso di malattia incurabile.

In realtà, i vari giudici che si sono occupati della tormentata vicenda hanno proceduto ad una analitica applicazione di diverse norme, tutte operanti a pieno titolo nel nostro ordinamento. Ferma restando la complessità della questione, dovuta essenzialmente al fatto che Eluana non avrebbe mai potuto esprimere il consenso alle terapie sanitarie che gli vengono somministrate, avendo oltrepassato quello che la comunità scientifica internazionale considera il punto di non ritorno.

L’unico giudice che aveva rigettato l’istanza del padre di Eluana era stato nel 2006 il Tribunale di Lecco, sostenendo perentoriamente che un tutore (il padre di Eluana) non ha alcun potere di esprimersi in merito alle terapie mediche da effettuare sull’incapace che rappresenta, quando la scelta condurrebbe alla sua morte, dovendosi privilegiare il diritto alla vita. E non potendo Eluana esprimersi, non si poneva alcun problema di consenso. Una decisione che sostanzialmente lasciava il destino di Eluana nelle mani dei medici, i quali non potevano fare altro che mantenerla in stato vegetativo permanente.

Ma già la Corte d’Appello di Milano aveva contraddetto il tribunale: gli articoli 357 e 424 del codice civile, imponendo in generale al tutore “la cura della persona”, non possono escludere un suo potere decisionale in ordine a trattamenti sanitari finalizzati al mantenimento dell’incapace in uno stato vegetativo, a condizione che venga ricostruita l’effettiva volontà dell’incapace. Tuttavia, sotto quest’ultimo aspetto, la Corte aveva ritenuto irrilevanti le testimonianze di alcune amiche di Eluana, che raccontavano come in passato la stessa avesse espresso una sorta di favor mortis nel commentare le condizioni di alcuni amici caduti in stato vegetativo permanente. Irrilevanti perché “dichiarazioni generiche, rese a terzi con riferimento a fatti accaduti ad altre persone, in un momento di forte emotività, quando era molto giovane, si trovava in uno stato di benessere fisico e non nella attualità della malattia, era priva di maturità certa rispetto alle tematiche della vita e della morte e non poteva neppure immaginare la situazione in cui versa ora”. In altre parole, la Corte d’Appello esigeva una sorta di “testamento biologico”, seppure non formale, per poter ricostruire una pressoché certa volontà di Eluana di non essere tenuta in quello stato. E il ruolo del tutore (il padre) doveva essere unicamente quello di portare in giudizio la volontà di Eluana.

Nel 2007 la Corte di Cassazione cambia tutto. Toglie il padre di Eluana dal ruolo passivo di mero rappresentante processuale della figlia, di vettore della sua volontà, per farlo partecipe di quella volontà. Lo fa citando e applicando norme operanti nel nostro ordinamento. Tra le tante, cita ed applica l’art. 5 del D.Lgs. n. 211 del 2003 (sulla sperimentazione clinica di medicinali), che per i soggetti incapaci impone “il consenso informato del rappresentante legale”, che “deve rappresentare la volontà presunta del soggetto”. Cita ed applica la Convenzione di Oviedo sui Diritti dell’Uomo e la Biomedicina del 1996, il cui art. 6 stabilisce che “Allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante”, convenzione ratificata e resa esecutiva in Italia con L. n. 145 del 2001.

Da queste norme la Suprema Corte attribuisce al padre di Eluana, in qualità di rappresentante legale, un ruolo decisivo proprio nella formazione della volontà della figlia. Si legge, infatti, nella sentenza, che il tutore deve ricostruire “la presunta volontà del paziente incosciente […] tenendo conto dei desideri da lei espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche”. Si badi bene: “ovvero”, dice la Cassazione. Ossia, la volontà non va ricostruita necessariamente attraverso eventuali esplicite dichiarazioni, che per la Corte d’Appello nemmeno bastavano. Può essere desunta dalla personalità manifestata durante la vita attiva, eventualmente incompatibile con l’accettazione di uno stato vegetativo permanente.

Ed è proprio ciò che ha accertato quella tanto vituperata sezione della Corte d’Appello di Milano alla quale la Corte di Cassazione ha rinviato la sentenza per definire il caso. Ne è venuta fuori una personalità “caratterizzata da un forte senso di indipendenza, intollerante delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni”. Personalità che, unitamente a quanto già riferito dalle sue amiche su specifici episodi aventi ad oggetto persone cadute in stato vegetativo permanente, fa ritenere che “per Eluana sarebbe stato inconcepibile subire non solo un trattamento invasivo finalizzato a mantenerla in vita artificialmente e in condizioni di totale soggezione alla altrui volontà, tale da implicare un’inevitabile esposizione allo sguardo e alla manipolazione da parte di altri soggetti, ma più in generale restare immobilizzata a letto come un oggetto, in definitivamente privata della possibilità di vivere pienamente la sua vita”.

La sentenza della Corte di Cassazione del 2007 è importante per altri motivi. Innanzitutto, qualifica l’alimentazione forzata di Eluana attraverso sondino naso gastrico quale trattamento sanitario, integrando essa “un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche” (non certo i frullati e i succhi di pomodoro di cui molti hanno parlato). Essendo un trattamento sanitario, deve quindi sottostare alla regola del consenso informato: nessun trattamento può essere effettuato senza il consenso di chi lo riceve, anche quando il mancato trattamento può portare alla morte. Ciò soprattutto nei casi di coma irreversibile. Lo si desume chiaramente dall’art. 32 Cost., norma che, nel sancire il diritto alla salute, pone limiti persino all’azione del legislatore: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Limiti che, a maggior ragione, non possono non valere per il medico.

La regola del consenso informato è espressamente prevista in numerose norme di legge, anche di natura sovranazionale, citate ed applicate dalla Corte di Cassazione. L’art. 33 L. n. 833 del 1978 (istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale); l’art. 5 della citata Convenzione di Oviedo, resa esecutiva in Italia con L. n. 145 del 2001; l’art. 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea; l’art. 35 del codice di deontologia medica.

Principi consolidati, ma che ancora negli ambienti cattolici vengono messi in discussione, attraverso una distorsione dei concetti di base. Del caso Englaro si è infatti parlato di eutanasia. Ma la caratteristica dell’eutanasia è, al contrario, quella di sopprimere la vita prescindendo dal consenso del paziente, consenso che nel caso in questione è stato fornito dal padre, in qualità di rappresentante legale della figlia, nonché dalla stessa attraverso la ricostruzione della propria volontà. Rigettare la richiesta del padre avrebbe significato la legittimazione dell’accanimento terapeutico nei riguardi di chi versa in stato vegetativo permanente, a causa della sua impossibilità di rifiutare espressamente qualsiasi terapia.

Detto ciò, è quantomeno fuorviante parlare di “vuoto normativo”, colmato dagli organi giudiziari invadendo la sfera di attribuzioni del legislatore. Tra l’altro, un fatto che in questi giorni si è nascosto è che nel 2008 la Corte Costituzionale si è pronunciata proprio sul conflitto di attribuzione sollevato da Camera e Senato nei riguardi della sentenza della Cassazione del 2007, dando ragione a quest’ultima. In proposito la Corte Costituzionale ha, tra l'altro, affermato: che “un conflitto di attribuzione nei confronti di un atto giurisdizionale non può ridursi alla prospettazione di un percorso logico giuridico alternativo rispetto a quello censurato, giacché il conflitto di attribuzione non può essere trasformato in un atipico mezzo di gravame avverso le pronunce dei giudici”; che non sussistono “indici atti a dimostrare che i giudici abbiano utilizzato i provvedimenti censurati come meri schemi formali per esercitare, invece, funzioni di produzione normativa o per menomare l’esercizio del potere legislativo da parte del Parlamento”; che così facendo Camera e Senato “avanzano molteplici critiche al modo in cui la Cassazione ha selezionato ed utilizzato il materiale normativo rilevante per la decisione o a come lo ha interpretato”. Per la Corte Costituzionale nessuna invasione di competenza, quindi. E, soprattutto, nessun vuoto normativo.

Ma di tutto ciò non si è fatta parola. Ed è rimasta solo la storia di cattivi giudici che si “inventano” una legge per mandare a morte Eluana Englaro.