Cassazione:
niente frasi virgolettate
nella pubblicazione di atti

Bologna, 22 gennaio 2015

(avv. Antonello Tomanelli)

Il giornalista non può riportare pedissequamente passi di atti giudiziari che, sebbene non più coperti dal segreto istruttorio, secondo l’art. 114 del codice di procedura penale possono essere pubblicati soltanto riportandone per riassunto il contenuto. E’ questo il senso della sentenza della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, che ha accolto il ricorso proposto da Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, contro le sentenze del Tribunale e della Corte D’Appello di Milano che avevano dato ragione al giornalista Luigi Ferrarella del Corriere della Sera, il quale, in alcuni articoli del 2005, aveva citato integralmente (appunto virgolettandoli) passi di alcuni atti giudiziari relativi al processo per i diritti tv di Mediaset.

Prima di capire il senso di questa pronuncia della Suprema Corte, è necessario fare chiarezza sulla normativa vigente in tema di pubblicazione di atti processuali.

Ogni procedimento penale incomincia con un’indagine preliminare, che consiste in quegli atti compiuti dal Pubblico Ministero e dalla Polizia Giudiziaria. Questi atti sono coperti da segreto istruttorio “fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari” (art. 329 del codice di procedura penale). Ciò significa che fino a quel momento non si possono pubblicare quegli atti, nemmeno per riassunto (ossia nemmeno riportandone il mero contenuto).

Una volta caduto il segreto istruttorio (quindi concluse le indagini preliminari), al giornalista è consentito di pubblicare per riassunto gli atti di un procedimento penale. Ciò significa che non potrebbe fare il classico “copiaeincolla” riportando pedissequamente passi di atti giudiziari in suo possesso, ma può solo riportarne il contenuto.

In origine l’art. 144 del codice di procedura penale prevedeva anche il divieto di pubblicazione integrale (quindi ammetteva solo la pubblicazione “per riassunto”) degli atti del fascicolo del dibattimento “se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado”. Ma tale norma è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte Costituzionale con sentenza 24 febbraio 1995 n. 59. Di conseguenza, quanto accade in dibattimento è immediatamente e integralmente pubblicabile. Del resto, ciò è in perfetta sintonia con la natura pubblica delle udienze dibattimentali.

Resta, quindi, la possibilità, da parte del giornalista, di pubblicare integralmente (quindi anche con il classico copiaeincolla) quanto accade in dibattimento, mentre gli atti non più coperti da segreto ma non formati in dibattimento possono pubblicarsi solo per riassunto.

Detto ciò, bisogna concludere che la sentenza della Suprema Corte non dice niente di nuovo, tantomeno va considerata un bavaglio. Non fa altro che sancire quanto già stabilito dalla normativa vigente, soprattutto quando dice che “Fatta salva la possibilità di pubblicare il contenuto di atti non coperti dal segreto, non può derogarsi al divieto di pubblicazione di tali atti (mediante riproduzione integrale o parziale o estrapolazione di frasi) nei casi previsti dall’art. 114 c.p.p., in dipendenza del dato quantitativo della limitatezza della riproduzione, trattandosi di deroga non prevista dalla norma”; e che “va escluso che una qualunque deroga possa essere giustificata dall’esercizio del diritto di cronaca e dalla necessità di assicurare la massima informazione, giacché tali esigenze sono state considerate e soddisfatte dalla previsione della libera pubblicazione del contenuto degli atti non più coperti dal segreto”.

Ma vi è di più. Analizzando la normativa, ci si accorge che il giornalista non deve considerarla limitativa delle sue prerogative, soprattutto se si considera l’interpretazione che di essa fornisce la stessa giurisprudenza. Si prenda, ad esempio, l’art. 379 bis del codice penale. Tale norma punisce con la reclusione fino a un anno “chiunque rivela indebitamente notizie segrete concernenti un procedimento penale, da lui apprese per aver partecipato o assistito ad un atto del procedimento stesso”. A meno che non si dimostri che il giornalista si sia in qualche modo accordato con il soggetto indicato nella norma (che è quello che ha partecipato o assistito all’atto) per acquisire la notizia segreta, in modo da determinarlo nel commettere il reato, non potrà essere accusato di alcunché se pubblica la notizia.

Al limite, in questo caso il giornalista potrà essere incriminato per il reato di cui all’art. 684 del codice penale, che punisce con l’arresto fino a 30 giorni o con l’ammenda da Euro 51 ad Euro 258 “chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione”. Perché qui il soggetto attivo del reato è certamente il giornalista (che pubblica). Ma è un reato che, trattandosi di mera contravvenzione, può essere – come si dice – “oblato” consentendo all’imputato di versare poche centinaia di Euro a fronte dell’estinzione del reato stesso.

Non solo. Ciò che è dall’esterno confluito in atti di indagine che sarebbero coperti da segreto è integralmente pubblicabile. L’ha detto la stessa Corte di Cassazione, seppure in una diversa sentenza: “I documenti di origine extraprocessuale (nella specie: liste di nomi, qualità e possidenze di cittadini italiani presso banche estere) acquisiti ad un procedimento, non compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, non sono coperti da segreto ex art. 329 c.p.p. Conseguentemente, per essi non vige il divieto di pubblicazione di cui all’art. 114 c.p.p., la cui violazione possa costituire il reato di cui all’art. 684 c.p.” (Cass. pen., Sez. I, 9 marzo 2011 n. 13494).

Certo, rimane più di un dubbio sulla logica sottesa ad una norma che consente la pubblicazione di un atto “per riassunto” vietandone la riproduzione, quando è evidente che solo nel primo caso è presente quella attività interpretativa che in alcuni casi può portare il giornalista a violare il requisito della verità. Ma su tale norma ben poco può fare la Corte di Cassazione, dovendo necessariamente applicarla.