Il caso Raiset
tra infedeltà dirigenziale
e servilismo giornalistico

26 novembre 2007

(avv. Antonello Tomanelli)

Quello che per alcuni era un ragionevole sospetto, per altri un’illazione, diventa certezza. Durante i cinque anni di governo Berlusconi, padrone di Mediaset, il meccanismo di diffusione delle notizie da parte del servizio pubblico Rai ha assunto connotati estranei ad un sistema democratico. Gli organi di informazione Rai agivano su precise direttive di chi, per appartenenza politica o per trascorsi professionali in Mediaset, curava gli interessi di un uomo solo.

E’ questo il quadro che viene fuori dalle intercettazioni disposte tra il 2004 e il 2005 dal Tribunale di Milano e legittimamente pubblicate dal quotidiano “La Repubblica”. I dirigenti Rai nominati dopo l’insediamento di Berlusconi a Palazzo Chigi, molti dei quali suoi ex dipendenti, tenevano continui contatti con dirigenti Mediaset, scambiandosi informazioni sui palinsesti e concordando tempi e modalità di diffusione delle notizie, al prevalente scopo di favorire il premier. Notizie importanti ma “scomode” venivano nascoste o quantomeno relegate in fondo ai tg, per effetto di quello che gli stessi intercettati definivano “gioco di squadra”. Le sconfitte elettorali venivano minimizzate o documentate con premeditata confusione. Gli stessi dirigenti Rai addirittura sollecitavano Mediaset a mandare in onda programmi “forti” quando presumevano che qualche conduttore Rai, all’interno di trasmissioni ad alto share, avrebbe dato ad una notizia “scomoda” il necessario approfondimento.

Noti giornalisti televisivi assicuravano in Rai trasmissioni di approfondimento informativo “confezionate addosso” a politici del centro destra, con sistematici riferimenti a Silvio Berlusconi. Ci si è mossi persino per impedire che nell’aprile 2005 la scomparsa di Giovanni Paolo II potesse alla vigilia delle consultazioni regionali catturare troppa attenzione a scapito del presidente del Consiglio presente a “Porta a Porta”.

In altre parole, in Rai il noto “conflitto di interessi” si è materializzato nel peggiore dei modi.

A portare avanti per anni questo autentico disegno criminoso ci hanno pensato direttori di rete e di tg, funzionari e giornalisti. In considerazione della qualifica di “incaricato di pubblico servizio” che certamente assume un dirigente Rai, un tale comportamento costituisce reato, rientrando nella previsione di cui all’art. 326 del codice penale (“Rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio”), che prevede la pena della reclusione da sei mesi a tre anni. E, considerando il rilevante numero di soggetti coinvolti nel medesimo disegno criminoso, si potrebbe in teoria arrivare a configurare anche il reato di associazione per delinquere.

Sul piano del rapporto di lavoro è palese la violazione dell’obbligo di fedeltà previsto dall’art. 2105 del codice civile, secondo cui il lavoratore inserito in un’azienda “non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. Qui la violazione è di particolare gravità, se si considera che i dirigenti Rai si sono prodigati per avvantaggiare l’unica azienda concorrente della Rai nel mercato televisivo.

E da un simile comportamento deriva il potere del datore di lavoro (in questo caso la Rai) di comminare nei riguardi dei dipendenti infedeli la massima sanzione, ossia il licenziamento per giusta causa. La “giusta causa” è per l’art. 2119 del codice civile quella che “non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”. E’ agevole constatare che qui ricorrerebbe l’urgente necessità, da parte dell’azienda, di tutelare con l’applicazione della massima sanzione i propri interessi materiali e morali di fronte al comportamento di persone che hanno agito, per conto di terzi, anche allo scopo di limitare le potenzialità dell’azienda a vantaggio della concorrente Mediaset. E’ chiaro che la Rai ha altresì il diritto di chiedere a costoro, nelle sedi competenti, il risarcimento dei danni patrimoniali e morali.

Il gravissimo caso involge anche questioni di deontologia professionale. Non a caso Fabrizio Del Noce, Clemente Mimun, Francesco Pionati, Bruno Vespa e Deborah Bergamini (anche lei giornalista) sono stati convocati dall’Ordine dei Giornalisti del Lazio per essere ascoltati sulla vicenda. Qui ad assumere rilevanza sono le pressioni esercitate e le manipolazioni effettuate al fine di rappresentare ai telespettatori una realtà sostanzialmente diversa.

E’ in primo luogo riscontrabile la violazione del dovere di verità, caposaldo del diritto di cronaca e, tra i doveri del giornalista, quello più pregnante. Va infatti considerato che gli organi di informazione costituiscono l’anello di congiunzione tra i fatti e la collettività. Se tale anello di congiunzione opera, invece, per far sì che una notizia giunga al pubblico deformata, o non giunga affatto, alla collettività viene negata la possibilità di un consapevole esercizio di quella sovranità che secondo l’art. 1 Cost. “appartiene al popolo”. Non a caso il dovere di verità viene dalla Carta dei Doveri del giornalista definito “obbligo inderogabile”.

Nondimeno, un altro fondamentale obbligo che risulta palesemente violato è il dovere di autonomia. La Carta dei Doveri pone l’accento sulla “responsabilità del giornalista verso i cittadini”, specificando che tale responsabilità non può dal giornalista essere subordinata “ad interessi di altri e particolarmente a quelli dell’editore, del Governo o di altri organismi dello Stato”. Il giornalista deve avere una relazione esclusiva, diretta e immediata con la collettività. E’ un dovere strumentale allo stesso dovere di verità, poiché l’asservimento della funzione giornalistica all’interesse “particolare”, per definizione diverso da quello generale, costringe il giornalista a manipolare l’informazione.

Tra l’altro, è importante notare come nel caso in questione si sia registrata un’attività giornalistica Rai totalmente asservita non soltanto al Governo, ma addirittura ad un editore (Berlusconi) diverso da quello di riferimento, quando la Carta dei Doveri si sforza di garantire l’autonomia del giornalista dal proprio editore. Ciò dimostra le conseguenze paradossali cui il noto “conflitto di interessi” ha dato vita, nemmeno immaginabili all’epoca in cui la Carta dei Doveri venne concepita (ossia prima che Berlusconi entrasse in politica fondando Forza Italia).

E non c’è dubbio che tali violazioni hanno fortemente compromesso quel “rapporto di fiducia tra gli organi di informazione e i cittadini” che la stessa Carta dei Doveri afferma, addirittura in premessa, di voler “promuovere e rendere più saldo” proprio attraverso la sua emanazione.

Ad ogni violazione deontologica deve seguire l’applicazione di sanzioni disciplinari da parte dei Consigli degli Ordini competenti. Si tratta di vedere quale sanzione potrebbe essere adeguata. Francamente, non pare che per il “caso Raiset” sia possibile trovare un qualche precedente. Ma va rilevato che i comportamenti in questione implicano la violazione grave e reiterata dei doveri di verità e di autonomia da parte di un numero di soggetti e con modalità tali da far pensare ad una situazione di illegalità assurta a sistema.

Ciò giustifica l’adozione della massima sanzione disciplinare: la radiazione. Non c’è dubbio, infatti, che ognuno dei giornalisti implicati nel “caso Raiset”, attraverso la reiterata violazione degli inderogabili e più pregnanti doveri deontologici, abbia “gravemente compromesso la dignità professionale fino a rendere incompatibile con la dignità stessa la sua permanenza nell’Albo”, come si esprime l’art. 55 L. n. 69/1963 per descrivere la condotta del giornalista da radiare. Qui il pensiero corre alla radiazione di Renato Farina, reo confesso di essere stato retribuito dai servizi segreti per carpire ai magistrati della Procura di Milano informazioni sul “caso Abu Omar” e per pubblicare notizie false sulla base di “veline” del Sismi al solo scopo di screditare personaggi politici (su questo caso si veda Renato Farina, uomo del Sismi).

Francamente, da un punto di vista deontologico, non sembra si possano scorgere differenze sostanziali tra la condotta di Farina e quella posta in essere da giornalisti che, pur in assenza di contropartita economica, manipolano l’informazione in esecuzione di un rapporto di sudditanza con il capo del Governo, per giunta proprietario di una televisione concorrente. Al di là delle specifiche differenze, in entrambi i casi la violazione dei doveri di verità e di autonomia assume una gravità tale da rendere la posizione dei rispettivi protagonisti incompatibile con il sistema dell'informazione di una moderna democrazia.