Il duro colpo
della Corte Costituzionale
alla privacy dei parlamentari

14 dicembre 2007

(avv. Antonello Tomanelli)

Con sentenza 23 novembre 2007 n. 390 la Corte Costituzionale cancella buona parte dell’art. 6 L. 20 giugno 2003 n. 140 (“legge Boato”), che disciplina le intercettazioni cosiddette “indirette” dei parlamentari, captate cioè casualmente attraverso l’intercettazione di altre utenze.

La legge è strutturata nel seguente modo. Impone al gip di ottenere la preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza per poter mettere sotto controllo l’utenza del parlamentare (art. 4). Fin qui nulla di eclatante, perché è la stessa Costituzione ad imporlo (art. 68).

Spesso però accade che il parlamentare conversi al telefono con un intercettato. Ebbene, analoga autorizzazione è necessaria per utilizzare a fini processuali quanto trapela da quelle conversazioni. Il problema, però, è che quell’autorizzazione è richiesta non solo per utilizzare le conversazioni contro il parlamentare, ma anche contro l’intercettato stesso, che parlamentare non è. E se la Camera di appartenenza nega l’autorizzazione, il gip deve entro dieci giorni distruggere l’intercettazione (sulla problematica si veda le intercettazioni dei parlamentari).

Una sorta di impunità per i “colletti bianchi”, se si pensa che spesso l’autorizzazione viene negata. Ed è qui che la Corte Costituzionale ha ravvisato la stortura. Perché mai chi per telefono fa dichiarazioni sostanzialmente confessorie deve farla franca grazie all’ombrello protettivo del parlamentare che lo ascolta, mentre chi non ha conoscenze “altolocate” deve su quelle dichiarazioni veder fondare una condanna?

Una violazione del principio di uguaglianza sancito all’art. 3 Cost., secondo la Consulta. Risultato: quelle norme sono incostituzionali.

Ora il gip non deve più richiedere l’autorizzazione parlamentare per utilizzare le intercettazioni come prova contro il diretto intercettato. Deve farlo solo se intende utilizzarle contro il parlamentare. Ma in quest’ultimo caso, qualora il Parlamento neghi l’autorizzazione, non dovrà più distruggerle, se intende utilizzarle nei confronti del diretto intercettato.

E il fatto che non debba più distruggerle ha inevitabili riflessi sul diritto di cronaca. Si ricorderanno le polemiche suscitate dal gip milanese Clementina Forleo quando, in base alle disposizioni della legge Boato (ora cancellate dalla Consulta), chiese al Parlamento l’autorizzazione ad utilizzare il contenuto delle conversazioni telefoniche tra l’indagato Consorte e alcuni parlamentari, tra cui D’Alema e Fassino, in merito alla vicenda delle “scalate bancarie”, per le quali solo l’ex presidente di Unipol era indagato. Da più parti si denunciò lo sconfinamento della Forleo in un ambito in cui il Parlamento è sovrano attraverso il meccanismo dell’autorizzazione. E da qui ad arrivare poi alla irrilevanza penale delle conversazioni dei parlamentari e alla conseguente violazione della loro privacy il passo fu breve.

Spesso accade infatti che i parlamentari casualmente intercettati dalla magistratura, quando si vedono le proprie conversazioni sui giornali o in tv, si lamentano adducendo l’irrilevanza penale dei loro comportamenti così come emersi. E’ una osservazione che parte dall’errato presupposto che il parlamentare debba stimolare l’interesse e la critica della collettività soltanto quando commette reati. Se dall’intercettazione emerge la partecipazione del parlamentare ad un’attività criminosa, ponendolo su un piano non dissimile da quello dell’indagato direttamente intercettato, è ovvio che l’interesse pubblico sussiste.

Ma l’interesse pubblico è collegato al modo in cui il parlamentare utilizza la propria funzione, che non necessariamente deve implicare la commissione di reati per poter destare l’interesse della collettività. E’ di interesse pubblico la conversazione del parlamentare sorpreso a parlare di (illegali) scalate bancarie con un indagato la cui utenza è sotto controllo. Se non costituisce reato limitarsi a “fare il tifo” per chi cerca di acquisire rilevanti partecipazioni in un gruppo bancario in violazione della legge, un tale comportamento fa sorgere il sospetto che il parlamentare eserciti le sue funzioni per tutelare interessi particolari. E non nel perseguimento dell’interesse generale, come da lui ossessivamente promesso. E se – come dice l’art. 1 Cost. – “la sovranità appartiene al popolo”, a chi attraverso il voto elettorale ha delegato il parlamentare alla cura della cosa pubblica va garantita la possibilità di controllarne l’operato, possibilità offerta proprio dalla pubblicazione delle intercettazioni.

In una democrazia l’utilizzo della funzione pubblica deve essere trasparente. Di conseguenza, solo la diffusione di brani di intercettazioni contenenti fatti privati, ossia privi di alcun collegamento con quella funzione, deve considerarsi illegittima, essendo la sfera privata del parlamentare intangibile come quella di chiunque.

Sotto questo aspetto la decisione della Corte Costituzionale assume grande importanza, non solo perché riduce il rischio che il potere politico denunci sconfinamenti del potere giudiziario. Un conto è divulgare intercettazioni che potrebbero, entro pochi giorni e a insindacabile giudizio del Parlamento sovrano, essere distrutte. Altro è pubblicarle quando per legge sono destinate ad assumere in un processo valore di piena prova. In altre parole, l’intervento della Consulta elimina quel senso di inopportunità che accompagnava la pubblicazione di intercettazioni dal destino incerto. E il cui contenuto veniva da molti ricondotto alla sfera privata del parlamentare anche per via di un’efficacia probatoria sottoposta alla spada di Damocle dell’autorizzazione parlamentare.

In un periodo in cui la gelosia della classe politica per le proprie prerogative si sostanzia nella pretesa a far calare il buio su fatti di indubbio interesse pubblico, una tale decisione della Corte Costituzionale va accolta con grande favore. La libertà di informazione che a volte si fa fatica a vedere garantita da chi emana le leggi, può essere garantita dal giudice delle leggi. E non rimane che sperare proprio in un intervento della Corte Costituzionale nell’eventualità in cui il disegno di legge Mastella, che impedisce la pubblicazione delle intercettazioni e di gran parte degli atti di indagine addirittura fino al termine dell’udienza preliminare, già approvato dalla Camera, dovesse passare anche al Senato (sulla problematica si veda obbrobri e contraddizioni nel disegno di legge sulle intercettazioni).