Bullismo a Viterbo:
Tg3 trasmette immagini
a contenuto raccapricciante

7 maggio 2008

(avv. Antonello Tomanelli)

Un ragazzo di quattordici anni viene portato a forza da un gruppo di coetanei di una scuola media di Viterbo in un luogo appartato e sottoposto ad una terrificante punizione: immobilizzato dal gruppo, gli vengono bruciati i capelli. Uno degli autori della “bravata” riprende tutto col telefonino. I capelli vengono letteralmente incendiati. Le immagini vengono inviate ad amici e conoscenti, secondo l’ormai famigerato copione seguito da ogni bullo che si rispetti.

Qualcuno dice: “Il video, girato a Pasqua, non è stato messo in rete ma circolava a scuola e anche fuori. Era considerato divertente”. La frase non proviene da un testimone scosso per aver assistito all’efferato gesto, ma dalla voce fuori campo che accompagna il servizio del Tg3 delle 19 andato in onda lunedi 5 maggio, e che riproduce fedelmente il filmato catturato dal telefonino di uno dei bulli. In altre parole, quelle immagini non sono andate su youtube, ma su un Tg nazionale.

Si tratta di immagini crude. Anche se stavolta non vi sono né sangue né cadaveri, quelle immagini riproducono atteggiamenti sostanzialmente riconducibili al concetto di tortura, almeno secondo le definizioni fatte proprie dalle legislazioni di quei paesi che hanno reso esecutiva nei rispettivi ordinamenti la Convenzione Onu del 10 dicembre 1984 (non ancora esecutiva in Italia). Si tratta cioè di immagini che possono essere considerate raccapriccianti.

Viene così in mente l’art. 15 della L. n. 47/1948 (“legge sulla stampa”), che prevede la reclusione da tre mesi a tre anni “nel caso di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”.

Per il sistema radiotelevisivo, tale norma è espressamente richiamata dall’art. 30, comma 2°, L. n. 223/1990 (legge Mammì), secondo cui “si applicano alle trasmissioni le disposizioni di cui agli articoli 14 e 15 della legge 8 febbraio 1948 n. 47”.

La pubblicazione di immagini raccapriccianti trova precisi limiti anche deontologici. Secondo la Carta dei Doveri, il giornalista non deve “pubblicare immagini o fotografie particolarmente raccapriccianti di soggetti coinvolti in fatti di cronaca, o comunque lesive della dignità della persona; né deve soffermarsi sui dettagli di violenza o di brutalità, a meno che non prevalgano preminenti motivi di interesse sociale”.

Storicamente la norma che punisce la pubblicazione di immagini raccapriccianti ha avuto una applicazione pressoché univoca. Ha riguardato qualsiasi immagine scioccante, a prescindere dalla esigenza informativa sottesa. Ma la norma pone una fondamentale questione, a causa del risultato contraddittorio cui porta la sua applicazione. Si censura un comportamento che può turbare chi apprende la notizia, ma che per il giornalista costituisce la forma più esemplare di adempimento del dovere di verità, il caposaldo del diritto di cronaca. Per questo motivo va privilegiata una soluzione che tenga conto della sensibilità del telespettatore medio, ma anche del diritto della collettività a ricevere un’informazione il più possibile fedele ai fatti.

E la soluzione non può che passare attraverso l’analisi del requisito dell’interesse pubblico. Va cioè appurato quando sussiste l’interesse pubblico ad acquisire l’immagine raccapricciante. Vale a dire: quando sussistono quei “preminenti motivi di interesse sociale” che secondo la Carta dei Doveri ne giustificano la messa in onda.

L’interesse pubblico sussiste quando l’immagine raccapricciante ha di per sé un valore informativo, ossia quando è l’unica fonte della notizia. Si pensi al caso delle torture nel carcere irakeno di Abu Ghraib. I fatti furono resi noti attraverso la diffusione di fotografie scattate dagli stessi torturatori americani e poi finite in mani “sbagliate”. Ebbene, la collettività non avrebbe potuto acquisire quella notizia senza la diffusione delle relative immagini. In considerazione del contesto, nessuna “fonte” (tantomeno ufficiale) avrebbe potuto fornire elementi di fatto tali da consentire al giornalista la diffusione della notizia nel rispetto del requisito della verità. Nel caso di Abu Ghraib le immagini raccapriccianti hanno un incontestabile valore informativo, rappresentando il contenitore di una notizia non altrimenti divulgabile.

Si pensi anche alle sconvolgenti immagini raccolte nel reportage trasmesso da Rainews 24 sulla Battaglia di Fallujia del novembre 2004, che ha svelato l’impiego in Irak del “fosforo bianco”, il micidiale ordigno Usa che fonde e deforma orribilmente i corpi delle vittime lasciandone intatti i vestiti. Le fonti ufficiali statunitensi avevano sempre smentito ogni voce circa l’impiego di armi di distruzione di massa in Irak. Qui la prova dell’uso del fosforo bianco da parte dell’esercito Usa era rinvenibile soltanto in quell’eccezionale documento, la cui integrale diffusione ha pertanto soddisfatto un interesse pubblico.

La stessa cosa può dirsi, in generale, per le immagini raccapriccianti che documentano la feroce azione repressiva all’interno di uno Stato, le cui autorità si rifiutano di fornire informazioni ai giornalisti. Qui rinunciare alla pubblicazione significherebbe privare la collettività dell’informazione di ciò che sta accadendo all’interno di quello Stato. E, nel contempo, offrire alle autorità la possibilità di smentire efficacemente (ma soprattutto “ufficialmente”) ogni notizia scomoda. In questi casi, la pubblicazione delle immagini raccapriccianti costituisce il solo strumento in grado di neutralizzare l’efficacia di quanto proviene da una fonte ufficiale, che in certi casi ha tutto l’interesse a fornire una versione dei fatti contraria a verità.

Può quindi arrivarsi alla seguente conclusione. L’immagine raccapricciante può essere pubblicata quando la sua diffusione soddisfa una reale esigenza informativa, vale a dire quando l’immagine è il contenitore di una notizia non altrimenti divulgabile nel pieno rispetto del requisito della verità. In altre parole, quando quelle immagini sono la notizia. Resta, invece, non pubblicabile quando la sua diffusione non è necessaria per far acquisire la notizia alla collettività.

E’ agevole constatare come la messa in onda di quelle brutte immagini di Viterbo non abbia assolto ad alcuna funzione informativa, poiché la collettività ben poteva acquisire la notizia anche senza vedere quelle immagini. Una caduta di stile del Tg3, soprattutto se si considera che quelle immagini, diversamente da quanto verificatosi in tante altre circostanze, non erano state neanche immesse su yuotube, noto veicolo di diffusione di immagini generalmente ritenute impubblicabili.