Preghiere nel deserto
e pipì nelle moschee:
indagato Gentilini

Bologna, 3 ottobre 2008

(avv. Antonello Tomanelli)

Vadano a pregare nel deserto! Voglio la rivoluzione contro i phone center i cui avventori si mettono a mangiare in piena notte e poi pisciano sui muri: che vadano a pisciare nelle loro moschee! Non voglio vedere neri, marroni o grigi che insegnano ai nostri bambini! Cosa insegneranno, la civiltà del deserto?”. Non sono le frasi sbiascicate da un ubriaco che barcolla nei pressi della stazione con un fiasco di vino in mano, ma i passi salienti del comizio tenuto a Venezia dal vicesindaco di Treviso Giancarlo Gentilini alla festa della Lega Nord.

Un comizio subito bollato come “becero” dal quotidiano della Cei “L’Avvenire” e finito sotto la lente di ingrandimento della Procura di Venezia, che ha iscritto Gentilini nel registro degli indagati per quel reato comunemente noto come “istigazione all’odio razziale”.

Qui va fatta una premessa. La legge che prevede questo reato è la n. 205/1993 (nota come “legge Mancino”), emanata in esecuzione della Convenzione internazionale di New York del 7 marzo 1966 (sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale). La legge Mancino all’art. 1, comma 1° lett. a), puniva “con la reclusione fino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico […]”.

Il secondo governo Berlusconi, poco prima delle elezioni dell’aprile 2006, con la legge n. 85/2006 è intervenuto su questa norma. Ha diminuito sensibilmente le pene: dalla reclusione fino a tre anni si passa alla reclusione fino a un anno e sei mesi o, in alternativa, alla multa fino a 6.000 Euro (in pratica, oggi il giudice potrebbe infliggere soltanto una pena pecuniaria). Ma la novità più importante è un’altra. Il soggetto attivo del reato non è più, come si esprimeva la legge Mancino, chi quelle idee le “diffonde in qualsiasi modo”, ma soltanto chi le “propaganda”.

Non è una differenza da poco. Tecnicamente l’area della "propaganda" è ben più ristretta di quella della “diffusione”. La propaganda implica necessariamente uno spiegamento, seppur minimo, di mezzi finalizzato non soltanto ad esprimere un pensiero, ma soprattutto a persuadere una moltitudine di persone, provocare la loro adesione alle idee veicolate. Chi in un qualsiasi contesto afferma che gli arabi o i rom debbono essere mandati via perché culturalmente inferiori, diffonde un pensiero. Chi afferma ciò in un volantino che distribuisce al pubblico, in un comizio o nello spazio che gli spetta all’interno di una tribuna politica, fa propaganda. Ne deriva che la legge del 2006 ha ricondotto sotto l’ombrello protettivo dell’art. 21 Cost. tutte quelle affermazioni razziste che non siano qualificabili come propaganda.

In altre parole, la recente allarmante crescita di episodi a sfondo razzista è stata preceduta da una legge ordinaria, votata da una maggioranza parlamentare sostanzialmente identica a quella attuale, che ha ristretto notevolmente l’area del penalmente rilevante.

Tuttavia, un dato è certo. Nonostante molte manifestazioni di stampo razzista siano state dalla legge del 2006 rese lecite, le frasi di Gentilini ricadono comunque nel suo ambito di operatività. Non c’è dubbio, infatti, che il comizio costituisca uno degli strumenti di “propaganda” più efficaci. Nel caso specifico, poi, le deliranti frasi del vicesindaco di Treviso sono state precedute e accompagnate da affermazioni che rendono davvero difficile ricondurre il tutto ad un’ipotesi di semplice “diffusione”. Si pensi ad alcuni dei riferimenti fatti dal vicesindaco appena salito sul palco: l'annuncio della creazione di un “vangelo secondo Gentilini”, l’avvertimento che “le mura di Roma stanno crollando sotto i colpi di maglio della Lega”. E l'ossessiva ripetizione della frase “voglio la rivoluzione” all'inizio di ogni passaggio del comizio.

E nemmeno può dubitarsi che le affermazioni di Gentilini costituiscano “idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico”. Mandare gli islamici a pregare nel deserto, farli pisciare nelle moschee, impedire loro di insegnare “ai nostri bambini”, potendo insegnare solo “la civiltà del deserto”. Affermazioni evidentemente strumentali alla identificazione di un nemico da schiacciare.

Tra l’altro, non è solo questo il reato commesso da Gentilini. L’art. 404 del codice penale punisce “chiunque, in luogo destinato al culto, o in luogo pubblico o aperto al pubblico, offendendo una confessione religiosa, vilipende con espressioni ingiuriose cose che formino oggetto di culto, o siano consacrate al culto, o siano destinate necessariamente al culto […]”. Considerando il valore che i musulmani attribuiscono alla moschea, non c’è alcun dubbio che il volere mandarli a pisciare all’interno dei propri luoghi di culto integri gli estremi del reato di vilipendio alla religione islamica.

Sotto quest'ultimo aspetto, va fatta una precisazione. Le frasi di Gentilini nei confronti dell'Islam non hanno nulla a che vedere con il comportamento tenuto da Sabina Guzzanti nei riguardi del Papa a Piazza Navona. La Guzzanti, al termine di un'aspra ma argomentata critica nei riguardi della Chiesa Cattolica, nel rispetto dello stile satirico che la contraddistingue ha augurato al Pontefice di finire “all’inferno, tormentato da dei diavoloni, frocioni, attivissimi e non passivissimi”. Una evidente citazione. Perché la “punizione” inflitta dalla Guzzanti trova un illustre precedente in Dante Alighieri, che nella Divina Commedia colloca nel girone infernale dei Simoniaci Papa Bonifacio VIII ed altri ecclesiastici per aver fatto commercio di beni sacri, condannandoli a restare appesi a testa in giù con il fuoco che brucia loro le piante dei piedi.

Nelle frasi di Gentilini, invece, non vi è traccia di satira, nemmeno di quella involontaria. Né una forma embrionale di critica, essendo del tutto mancante qualsiasi argomentazione. Siamo alla negazione del ragionamento e al puro insulto. Impossibile, quindi, far rientrare quelle frasi nel diritto di critica.