Quando la classe politica
vieta ai magistrati
la libertà di pensiero

Bologna, 8 ottobre 2008

(avv. Antonello Tomanelli)

Magistrati al guinzaglio ma col bavaglio. Sembra questa la parola d’ordine che circola in molti ambienti politici, e di rimbalzo nei locali del Csm frequentati dai membri “laici”, quelli eletti dal Parlamento. Quanto accaduto in questi giorni è emblematico. Due consiglieri Pdl hanno chiesto di sottoporre a procedimento disciplinare Fabio De Pasquale, pubblico ministero al processo Mills, e Adriano Sansa, presidente del Tribunale dei minori di Genova. Il primo per aver definito “criminogeno” il lodo Alfano mentre davanti ai giudici sollevava la relativa questione di costituzionalità. Il secondo per avere, nel corso di un’assemblea pubblica sul tema giustizia, chiamato Berlusconi “piduista circondato da persone che servono lui e non lo Stato”.

Storicamente le limitazioni ai magistrati hanno riguardato soltanto la libertà di associazione. I magistrati non possono iscriversi a partiti politici. E’ una deroga ad una libertà garantita dall’art. 49 Cost., secondo cui “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” .

Ma si tratta di una deroga che è la stessa Costituzione a consentire. L’art. 98, infatti, dopo aver sancito che “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, al comma 3° precisa: “Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”. Divieto oggi in vigore solo per i magistrati. Per le altre figure, soltanto l’Arma dei Carabinieri lo conserva, attraverso specifiche circolari.

Un divieto che, a ben vedere, per i magistrati ha una logica. Non sono soltanto “al servizio esclusivo della Nazione”, come i poliziotti, i militari, i diplomatici. I magistrati, come sancisce l’art. 104 Cost., costituiscono “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Segnatamente dal Potere Esecutivo, cui le altre categorie sono invece subordinate. Un magistrato che si associasse ad un partito politico si dissocerebbe dal principio di autonomia costituzionale della funzione giudiziaria.

Tuttavia, gli sforzi che negli ultimi tempi il legislatore ha dedicato ai magistrati si sono concentrati non sulla regolamentazione della loro libertà di associazione, bensì della loro libertà di espressione. Per fare un esempio, l’ultima riforma dell’ordinamento giudiziario (D.Lgs n. 109/2006 e successive modifiche) dà solo al procuratore della repubblica (che è il capo dei pubblici ministeri di un tribunale) la facoltà di comunicare con i giornalisti, negandola al pm titolare delle indagini. Il giornalista perde così il contatto con la fonte della notizia. Una norma, questa, che finisce per incidere sul diritto all’informazione.

Ma c’è di peggio. Al magistrato non si vieta soltanto di divulgare notizie sulla propria attività, anche se di interesse pubblico, e di rilasciare interviste su procedimenti in corso. Accanto al divieto (ovvio) di usare la qualità di magistrato “al fine di conseguire vantaggi ingiusti per sé o per altri”, all’art. 3, comma 1° lett. i) del D.Lgs. n. 109/2006 gli si vieta, pena un procedimento disciplinare, “l’uso strumentale della qualità che, per la posizione del magistrato o per le modalità di realizzazione, è diretto a condizionare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste”.

E’ la negazione del diritto di critica. Qualsiasi valutazione negativa che un magistrato esprimesse pubblicamente su un progetto di legge sarebbe passibile di sanzione disciplinare, essendo il procedimento legislativo il prodotto di una funzione costituzionale. Ed è probabilmente a questo che pensavano i due consiglieri laici del Pdl quando hanno chiesto l’apertura di un procedimento disciplinare a carico del magistrato Adriano Sansa per aver definito Berlusconi, in un incontro pubblico sulla riforma della giustizia, “un piduista circondato da persone che servono lui e non lo Stato”. Un’affermazione sulla quale nessun tribunale fonderebbe una condanna per diffamazione, essendo chiara espressione del diritto di critica (Berlusconi, come è noto, è stato a lungo iscritto alla P2 e molti suoi ministri manifestano scarsissima autonomia, in modo particolare Alfano).

Fino ad arrivare all’assurdo. Si chiedono provvedimenti disciplinari per le espressioni adoperate dai magistrati in corso di causa, necessarie per sostenere le proprie argomentazioni giuridiche (quindi per esercitare la funzione giudiziaria). In quest’ottica, diventa illecito definire in udienza “criminogeno” il lodo Alfano mentre si solleva la relativa questione di costituzionalità; così come scrivere nella richiesta di autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni telefoniche contro parlamentari, inviata al Parlamento dal Gip Clementina Forleo nell’ambito dell’inchiesta sulle scalate bancarie, che D’Alema e La Torre sono “consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata”. Il tutto nonostante l’art. 598 del codice penale (classe 1930) stabilisca, con riferimento ai reati di ingiuria e diffamazione, che “Non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità Giudiziaria”. E non c’è dubbio che qui non si possa nemmeno parlare di “offese”, ma di necessaria ricostruzione di fattispecie giuridiche.

Il procedimento nei confronti di De Pasquale, dove l’accusa si basa sul nulla, verrà certamente archiviato, come già accaduto per la Forleo e in parte per De Magistris. Ma va ricordato che la Forleo è stata invece sanzionata per le dichiarazioni rese ad “Annozero” sulle pressioni politiche subite nel corso dell’inchiesta sulle scalate bancarie, ossia per dichiarazioni di indubbio interesse pubblico. Non ci sarebbe da meravigliarsi, quindi, se venissero adottate sanzioni disciplinari nei riguardi di Sansa per le sue critiche al governo Berlusconi.

Bisogna concludere che da qualche tempo ai singoli magistrati viene negata la libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost., che la stessa Costituzione non prevede possa essere limitata con legge ordinaria, diversamente da quel che si è visto per la libertà di associazione. Viceversa, la libertà di espressione contro i magistrati ha toccato livelli sconosciuti in qualsiasi altro paese. Vengono tollerate solo le prese di posizione dei membri dell’Anm. E’ come se un qualsiasi lavoratore potesse criticare le scelte del governo soltanto per bocca di un’organizzazione sindacale. Viene spontaneo pensare come sia lontano il 1995, quando nessuno si scandalizzò, né furono invocati provvedimenti disciplinari, a seguito delle parole pronunciate in udienza dal pubblico ministero Paolo Ielo, che motivando la sua richiesta di condanna definì Craxi “un criminale matricolato”.