I PROGRAMMI DI COMUNICAZIONE POLITICA

Secondo l’art. 49 Cost., “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. In un’ottica pluralista, la norma riconosce agli stessi partiti, in quanto libere associazioni, il diritto di essere presenti nella vita politica e di interagire con la collettività. Tradotto in termini mediatici, il diritto a disporre, anche in periodo non elettorale, di spazi all’interno dei programmi radiotelevisivi per la comunicazione politica, che le norme sulla par condicio esigono avvenga in condizioni di parità.

La comunicazione politica è disciplinata dalla legge ordinaria, oltre che dai provvedimenti della Commissione di Vigilanza e dell’Authority. La forma più genuina di comunicazione politica è il messaggio autogestito, che la L. n. 28/2000 vuole gratuito sulle reti nazionali (obbligatorio per la Rai, facoltativo per le reti private) e a pagamento sulle reti locali. Qui il rappresentante della forza politica espone un “programma” o una “opinione politica” rivolgendosi direttamente agli elettori in assenza di contraddittorio, attraverso un monologo la cui durata va da uno a tre minuti per il messaggio televisivo e da trenta a novanta secondi per quello radiofonico (art. 3 L. n. 28/2000).

Poi vi sono le cosiddette tribune, disciplinate, per quanto riguarda la Rai, dal Provvedimento 18 dicembre 2002 della Commissione di Vigilanza, che le individua in tre contenitori. Le “conferenze stampa”, in cui per quaranta minuti un leader politico si sottopone alle domande di quattro giornalisti “di orientamento politico culturale non omogeneo a quello del soggetto politico” (art. 5). I “dibattiti a due”, della durata di trenta minuti, in cui “due rappresentanti di diversi soggetti politici si confrontano sui temi di attualità politica” (art. 6). Infine, le “tavole rotonde tematiche”, della durata di quarantacinque minuti, cui partecipano i rappresentanti di quattro soggetti politici “in modo da garantire l’equilibrio numerico tra la maggioranza e le opposizioni” (art. 7). A parte le conferenze stampa, che sostanzialmente altro non sono che messaggi autogestiti stimolati dalla domanda iniziale del giornalista, le altre tribune si basano sul contraddittorio tra i soggetti politici.

La caratteristica principale dei programmi di comunicazione politica è che i protagonisti sono i politici partecipanti. Ad essi va garantita la massima libertà di esposizione ed argomentazione, beninteso in parti uguali, operando qui le regole della par condicio. Qui il giornalista conduttore (che per ovvi motivi è assente nei messaggi autogestiti) svolge una funzione passiva, di moderatore. Non incide sui contenuti, non ricerca la verità, perché non genera informazione. Deve solo garantire ad ogni politico gli spazi per comunicare la “loro” verità. E’ più un notaio che un giornalista. Non può contraddire il politico (che può essere contraddetto soltanto da un altro politico), altrimenti interromperebbe la comunicazione tra il soggetto politico e gli elettori, violando il principio del pluralismo. Il suo unico scopo deve essere quello di porre in relazione il telespettatore con ciascuno dei soggetti politici rappresentati nella trasmissione. Qui il giornalista è sostanzialmente deresponsabilizzato, in quanto non partecipa al contraddittorio, consentito soltanto tra i politici partecipanti.

Dati questi presupposti, sulle modalità di conduzione dei programmi di comunicazione politica non possono sorgere questioni inerenti al diritto di cronaca. Qui i tradizionali requisiti (verità, interesse pubblico, continenza formale) o non sono nemmeno concepibili, o non toccano la figura del giornalista. Non esiste una verità, ma tante verità quanti sono i soggetti politici che partecipano alla trasmissione. L’interesse pubblico è interamente rappresentato dall’essere la trasmissione attuazione del pluralismo politico. E la questione della continenza formale non può porsi in quanto non è riconducibile al giornalista conduttore nemmeno una libertà di opinione.

La disciplina della comunicazione politica fissata per le reti private dalla Authority presenta alcune differenze rispetto a quella stabilita per la Rai dalla Commissione di Vigilanza. La normativa di riferimento è contenuta nella Delibera n. 200/00. Per i messaggi autogestiti, l’art. 3, comma 1°, stabilisce che non possono superare, per ogni settimana, il 25% del tempo complessivamente dedicato agli spazi per la comunicazione politica.

Poi, l’art. 2 garantisce condizioni di parità a tutti i soggetti politici nell’accesso e nella esposizione delle loro posizioni nei programmi di comunicazione politica. Tale parità va riscontrata “nell’arco di un trimestre”. L’ambito trimestrale di riferimento “si intende sospeso” durante la campagna elettorale, per la quale vigono regole leggermente diverse.

Ma il punto della Delibera che desta qualche perplessità, confrontandola con il Provvedimento della Commissione di Vigilanza per i programmi di comunicazione politica trasmessi dalla Rai, è certamente quello contenuto nell’art. 2, comma 5°. Secondo questa norma, “Le emittenti […] inseriscono nei loro palinsesti le trasmissioni di comunicazione politica di cui all’art. 2, comma 3, della legge 22 febbraio 2000 n. 28, raccordandole alle caratteristiche editoriali proprie delle diverse emittenti”. La norma si riferisce ai programmi di comunicazione politica basati sul contraddittorio (ossia i programmi diversi dai messaggi autogestiti).

E’ da chiedersi se quel “raccordo” dei programmi di comunicazione politica “alle caratteristiche editoriali proprie delle diverse emittenti” rischi di legittimare una loro particolare conduzione. Va tenuto presente, infatti, che alcuni rivendicano per le emittenti private la natura di “imprese di opinione”, che consentirebbe ad esse di manifestare ex art. 21 Cost. una identità politica, inconcepibile per la Rai in quanto servizio pubblico. E le tre emittenti nazionali di proprietà Mediaset subiscono inevitabilmente l’influenza di Silvio Berlusconi, suo principale azionista ma anche leader di uno dei maggiori partiti presenti in Parlamento.

Ebbene, non vi è motivo di attribuire all’art. 2, comma 5°, della Delibera dell’Authority un significato diverso da quello imposto dalla natura propria della trasmissione di comunicazione politica, dove il conduttore è unicamente garante del pluralismo politico, anche quando la trasmissione è irradiata da una rete privata. Sono troppe le norme che considerano il servizio radiotelevisivo “di preminente interesse generale”, a prescindere dalla natura pubblica o privata dell’emittente. Per dirla con la Corte Costituzionale, il pluralismo politico rappresenta “uno dei principi fondamentali del sistema radiotelevisivo, che si realizza con il concorso di soggetti pubblici e privati” al quale devono sottostare anche “gli imprenditori privati che operano nel settore, proprio in quanto soggetti in grado di concorrere insieme al servizio pubblico nella realizzazione dei valori costituzionali posti a presidio dell’informazione radiotelevisiva” (Corte Cost. n. 155/2002).

In conclusione, i programmi di comunicazione politica trasmessi sulle reti private vanno, quanto alle modalità di conduzione e di rappresentazione dei soggetti politici, integralmente equiparati a quelli mandati in onda sulle reti pubbliche Rai.