Obbrobri e contraddizioni
nel disegno di legge
sulle intercettazioni

Bologna, 12 giugno 2009

(avv. Antonello Tomanelli)

Alle 16 di ieri 11 giugno la Camera dei Deputati ha approvato a larga maggioranza il disegno di legge sulle intercettazioni. E’ ormai evidente la volontà dell’attuale maggioranza di avvantaggiare certe forme di delinquenza organizzata. Il principio generale è che l’intercettazione non verrà più autorizzata “quando vi sono gravi indizi di reato”, come recita l’attuale art. 267, comma 1°, del codice di procedura penale, ma soltanto “quando vi sono evidenti indizi di colpevolezza”.

Un vero giurista non avrebbe mai messo a repentaglio la propria reputazione formulando una simile norma. L’intercettazione, infatti, in qualsiasi ordinamento giuridico, è considerato un mezzo di ricerca della prova, ossia un mezzo per arrivare a dimostrare la colpevolezza di qualcuno, che si sa avere un qualche rapporto con una fattispecie di reato e nella consapevolezza che conversando per telefono si tradirà, o quantomeno farà luce sui veri responsabili. Invece, la nuova formulazione della norma richiede a chi effettua l’intercettazione di disporre già di quegli elementi che è solitamente l’intercettazione a rivelare.

Tra l’altro, si noti come la formulazione della norma renda i presupposti dell’intercettazione (“evidenti indizi di colpevolezza”) straordinariamente somiglianti a quelli già richiesti per l’adozione di misure come la custodia cautelare in carcere (“gravi indizi di colpevolezza”). Un paradosso bello e buono. Qualcuno potrà essere intercettato solo quando su di lui convergono elementi che di per sé dovrebbero farlo finire in galera. Ma se sarà da mettere in galera, che bisogno ci potrà essere di intercettarlo?

Si noti poi la tecnica di redazione della norma, che vale la pena riportare integralmente: “L'autorizzazione è data con decreto […] quando vi sono evidenti indizi di colpevolezza e le operazioni […] sono assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini e sussistono specifiche e inderogabili esigenze relative ai fatti per i quali si procede, fondate su elementi espressamente e analiticamente indicati nel provvedimento, non limitati ai soli contenuti di conversazioni telefoniche intercettate nel medesimo procedimento e frutto di un'autonoma valutazione da parte del giudice”. E’ evidente che chi ha formulato la norma vede la figura del pubblico ministero come il fumo negli occhi. Una formulazione che è una pernacchia all’art. 112 Cost., secondo cui “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”: se si toglie al pubblico ministero uno strumento investigativo indispensabile, lo si pone nella condizione di non poter più adempiere a quell’obbligo costituzionale.

Poi, la nuova legge limita la durata delle intercettazioni, fino ad un massimo di 60 giorni. Francamente, una simile limitazione non può avere alcun senso, se non quello di fare una grossa cortesia a chi ritiene indispensabile l’uso del telefono per gestire loschi affari. Limitazione che però non è prevista per i reati di mafia e di terrorismo. Quindi, la limitazione di 60 giorni riguarderà non solo i corruttori che ronzano attorno a migliaia di amministrazioni, ma addirittura l’omicida, con buona pace della sicurezza.

Veniamo ora al rapporto tra la nuova normativa e la libertà di informazione, nei suoi aspetti salienti.

Attualmente il codice di procedura penale pone un divieto assoluto di pubblicazione solo per gli atti coperti da segreto (istruttorio), ossia gli atti che pm e polizia giudiziaria compiono nel corso delle indagini preliminari. Segreto che cessa nel momento in cui l’indagato acquisisce il diritto di conoscere quegli atti (art. 329 del codice di procedura penale). Il motivo di questo divieto assoluto è semplice. Si vogliono salvaguardare i risultati dell’indagine, che verrebbero compromessi qualora un soggetto, attraverso una fuga di notizie, venisse a sapere di essere indagato. E, per chi fa informazione e per la collettività che ne fruisce, finché permane l’esigenza di mantenere il segreto istruttorio il fatto è, diciamo così, in fase di formazione, quindi non esiste ancora una notizia.

Dal momento in cui l’indagato ha comunicazione ufficiale delle indagini nei suoi confronti, il divieto di pubblicazione diviene relativo. Fino alla chiusura delle indagini preliminari, quegli atti non possono essere pubblicati integralmente, ma se ne può diffondere il contenuto (art. 114 del codice di procedura penale). In pratica, gli organi di informazione non possono riprodurli a mo’ di “copiaeincolla”, nemmeno parzialmente, ma possono citare circostanze, argomentazioni, conclusioni in essi riportate. L’informazione è quindi garantita, come pure i risultati delle indagini, visto che l’indagato a quel punto sa già di essere indagato. Da quel momento, il fatto è delineato, quindi sorge la notizia.

Ciò vale anche per le intercettazioni. Richieste dal pm e autorizzate dal gip, una volta eseguite vengono trascritte, infine depositate presso la segreteria del pm, per essere conosciute dalle parti e dai loro difensori. Da questo momento il relativo contenuto, se di interesse pubblico, può essere legittimamente divulgato.

Il disegno di legge approvato dalla Camera cancella tutto questo. Viene imposto, e per qualsiasi reato, il divieto assoluto (quindi anche del solo contenuto) di pubblicazione delle intercettazioni “anche se non più coperte dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare”. Qui il tentativo di affossare il diritto all’informazione svela una evidente contraddizione. Accade che il divieto assoluto di pubblicazione, che è diretta espressione e logica conseguenza del segreto istruttorio, supera il limite temporale oltre il quale non vi è più alcuna necessità di salvaguardare i risultati dell’indagine, dato che l’indagato sa già tutto.

Ne deriva un gratuito affossamento del principio di immediatezza della notizia, che vuole ogni accadimento di interesse pubblico appreso dalla collettività prima possibile. Con questa legge, il contenuto di un’intercettazione non potrà più essere divulgato senza che ciò possa apportare il minimo beneficio alle indagini. La notizia esisterà, i risultati dell’indagini saranno garantiti ma la collettività non potrà sapere che cosa si sono detti, ad esempio, un mafioso e un noto politico. Il tutto anche per anni, vista la durata che per legge alcune indagini possono avere.

Il tutto nonostante le intercettazioni contengano sostanzialmente delle confessioni, rese evidentemente in assenza di qualsiasi indebita pressione, circostanza che conferisce al fatto cui si riferiscono il massimo grado di verosimiglianza. E qui si innesta una ulteriore grave contraddizione.

La legge, infatti, consente la pubblicazione del contenuto delle ordinanze applicative di misure cautelari (prima fra tutte: la custodia cautelare), dopo che l’indagato o il difensore ne abbia avuto conoscenza. Ad esse, cioè, non viene esteso il segreto previsto per le intercettazioni. Ciò anche se fra un’ordinanza applicativa di una misura cautelare e un’intercettazione vi è una differenza stratosferica. Vediamo quale.

Gli atti compiuti dal pm (come la richiesta al gip della custodia cautelare), e contenuti nel suo fascicolo, vengono conosciuti soltanto dal gip. Questi, sulla base del contenuto di quel fascicolo, può applicare le misure cautelari ma decide anche, al termine dell’udienza preliminare, se dichiarare il non luogo a procedere o rinviare a giudizio l’imputato mandandolo davanti al giudice del dibattimento. Quest’ultimo deciderà esclusivamente sulla base delle risultanze del proprio fascicolo, che viene riempito man mano che le prove vengono espletate davanti a sé (testimonianze, perizie, etc.). Il giudice del dibattimento, quindi, non potrà mai basare la propria sentenza sul contenuto del fascicolo del pm, semplicemente perché non lo conosce.

Quest’ultima regola subisce alcune eccezioni per i cosiddetti atti non ripetibili, compiuti durante le indagini preliminari: tra questi vi sono proprio le intercettazioni. I relativi verbali non vengono conosciuti soltanto dal gip (per decidere il rinvio a giudizio) e da pm e imputato (per esigenze di accusa e di difesa), ma confluiscono nel fascicolo del dibattimento. Ciò significa che il giudice del dibattimento alla fine deciderà non soltanto sulla base delle prove espletate davanti a sé, ma anche sulla base del contenuto delle intercettazioni. In altre parole, nel nostro ordinamento le intercettazioni costituiscono prova a tutti gli effetti.

Ed ecco la contraddizione. Potrà essere pubblicato il contenuto di un’ordinanza di custodia cautelare che nemmeno finirà sul tavolo del giudice del dibattimento. Non potrà essere pubblicato, invece, il contenuto di un’intercettazione, nonostante il giudice del dibattimento potrà su di esso addirittura fondare la condanna. Una soluzione irragionevole, se non peggio, perché la pubblicazione dovrebbe consentirsi a maggior ragione per il contenuto di quegli atti che lo stesso ordinamento avvicina ad un’idea di verità proprio in virtù del loro valore probatorio.

Tra l’altro, il disegno di legge prevede che la pubblicazione del contenuto dell’ordinanza che dispone la misura cautelare non potrà richiamare il contenuto delle intercettazioni eventualmente riportate. Se si considera che spesso le ordinanze di custodia cautelare si basano proprio sulle risultanze delle intercettazioni (dato il loro pesante valore probatorio), la collettività non saprà per quale motivo una persona è stata arrestata.

Ecco, quindi, l’affossamento di un altro principio squisitamente democratico: quello della trasparenza dell’azione dei pubblici poteri. Azzerando la possibilità di esercitare un controllo diffuso sull’operato degli organi giudiziari durante le indagini preliminari, potrebbe essere lo stesso indagato a rimetterci, a causa dell’alone di mistero che inevitabilmente finirebbe per avvolgere anche quei meccanismi processuali sorti a garanzia della sua libertà.

E non si può non rilevare una ulteriore contraddizione. Si vuole oscurare l’azione di quella magistratura inquirente violentemente attaccata nel proprio operato proprio da quegli ambienti politici che sono i convinti sostenitori di questa legge, quando solo il controllo esercitato dagli organi di informazione può scongiurare arbitri ed eccessi.