IL TRATTAMENTO
DEI DATI PERSONALI
NELL'ATTIVITA' GIORNALISTICA

Secondo l’art. 4, comma 1° lett. b), D.Lgs. n. 196/2003 (noto come “Codice della Privacy”), è dato personalequalunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale”. Una nozione piuttosto ampia, che fa ritenere il dato personale come qualunque informazione il cui utilizzo può portare alla identificazione, anche indiretta, di un soggetto. Sono dati personali, quindi, non solo le generalità e l’immagine di un individuo, ma anche il numero della carta di identità, dell’utenza telefonica e della carta di credito, il codice fiscale, l’indirizzo di posta elettronica, la targa automobilistica, la voce, le impronte digitali.

Vi sono, poi, alcuni dati personali che non si limitano ad identificare un soggetto, ma ne indicano una particolare condizione. Sono i dati sensibili, che per l’art. 4, comma 1, lett. d), codice della privacy sono quei “dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.

Il trattamento dei dati personali consiste in “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezione, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati” (art. 4, comma 1° lett. a), Codice della Privacy).

Le regole generali sul trattamento dei dati personali sono molto precise. In estrema sintesi, chi intende operare un trattamento deve preventivamente informare l’interessato (ossia colui al quale i dati si riferiscono) circa finalità, limiti e conseguenze del trattamento stesso: è l’informativa di cui all’art. 13 del Codice della Privacy. Subito dopo deve ottenerne il consenso (art. 23). Il trattamento che riguarda dati sensibili, oltre a necessitare del consenso scritto dell’interessato, deve essere espressamente previsto dalla legge o da uno specifico provvedimento autorizzativo del Garante. Gli enti pubblici (ma non quelli economici) sono dispensati dall’osservare la regola del consenso per il trattamento di qualsiasi tipo di dato personale, che però va effettuato “soltanto per lo svolgimento di funzioni istituzionali” (art. 18, comma 2°, Codice della Privacy), e per i dati sensibili se e nella misura in cui lo preveda una norma di legge o un provvedimento del Garante (art. 20). I dati giudiziari sono sottoposti ad una disciplina analoga a quella prevista per i dati sensibili.

Invece, norme particolari sono previste per il trattamento effettuato dai giornalisti. Non è necessaria alcuna autorizzazione del Garante. E il giornalista che effettua il trattamento non ha l’obbligo di ottenere il consenso dell’interessato, anche quando il trattamento riguarda dati sensibili (art. 137, commi 1° e 2°, codice della privacy). Ciò significa che il giornalista può liberamente e autonomamente crearsi la propria banca dati.

Tuttavia, al momento della raccolta del dato personale, il giornalista sarebbe comunque obbligato a rendere l’informativa di cui all’art. 13 del Codice della Privacy. Ma è un obbligo dal peso certamente trascurabile se raffrontato con quello che incombe sugli altri soggetti tipo responsabili del trattamento.

Infatti, già lo stesso Codice della Privacy all’art. 139 prevede che il codice di deontologia possa adottare “forme semplificate per le informative di cui all’art. 13”. Forme semplificate adottate dall’art. 2 del codice deontologico, che impone al giornalista di rendere nota all’interessato soltanto “la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta”, dispensandolo dall’obbligo di fornire gli altri elementi descritti all’art. 13, obbligo invece operante per tutti i soggetti che effettuano un trattamento. Ma la stessa norma autorizza il giornalista a non identificarsi e a non rendere l’interessato edotto della finalità della raccolta dei dati quando “ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa”.

E’ evidente come quest’ultima disposizione svuoti il contenuto dell’obbligo dell’informativa di cui all’art. 13. A parte il caso dei rischi per l’incolumità, è facile immaginare come spesso l’ostentazione della propria qualifica obbligherebbe il giornalista a rinunciare ad informare il pubblico, poiché l’interlocutore si guarderebbe bene dal fornirgli qualsiasi dato. L’omissione dell’informativa è qui prevista non tanto a tutela della professionalità del giornalista, quanto per consentire alla collettività la fruizione di informazioni che soltanto il giornalista è in grado di veicolare. Non a caso l’art. 1 del Codice di deontologia, proprio su spinta del legislatore e del Garante, ha sancito il principio che i trattamenti effettuati nell’esercizio dell’attività giornalistica “si differenziano nettamente per la loro natura dalla memorizzazione e dal trattamento di dati personali ad opera di banche dati o di altri soggetti”.

Sotto questo aspetto, il giornalista gode di una libertà di azione addirittura maggiore di quella riconosciuta agli enti pubblici, per definizione portatori di un interesse pubblico. Questi, infatti, come già detto, possono trattare liberamente dati personali “soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali” e solo su autorizzazione di una legge o di uno specifico provvedimento del Garante quando il trattamento riguarda dati sensibili o giudiziari. Per giunta, l’informativa sul trattamento va dagli enti pubblici resa sempre e in forma integrale, senza possibilità di una qualche “forma semplificata”, o addirittura di una esenzione, come è invece previsto per i giornalisti.

Ciò evidenzia il carattere indubbiamente pubblicistico dell’attività giornalistica, con riferimento non solo al momento informativo, ma anche a quelle operazioni (prima fra tutte: l’acquisizione della notizia) che, precedendo la pubblicazione della notizia, sono strumentali ad essa ed implicano quasi sempre un trattamento di dati personali.

Tuttavia, nell’art. 2 del codice di deontologia si scorge un preciso limite all’attività di raccolta di dati personali. Il giornalista – dice la norma “evita artifici e pressioni indebite”. Ora, nessun dubbio sull’opportunità di vietare al giornalista “pressioni indebite”. Ma cosa deve intendersi esattamente per “artifici”?

Se il termine “artificio” lo si intendesse nel significato opposto al concetto di “trasparenza”, allora molte notizie risulterebbero raccolte in violazione della legge sulla privacy. E, soprattutto, non potrebbe sfuggire la contraddizione cui darebbe vita la stessa norma, laddove consente al giornalista di nascondere identità, professione e finalità della raccolta quando la loro manifestazione “renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa”. Il giornalista che lascia accesi microfono e telecamera nonostante l’intervistato abbia condizionato il rilascio di dichiarazioni al loro spegnimento, raccoglie dati personali (immagine, voce) ricorrendo ad un comportamento tutt’altro che trasparente, ma evidentemente indispensabile per l’esercizio della funzione informativa. Stessa cosa per il giornalista che si camuffa da infermiere per trarre le immagini del degrado di un ospedale pubblico, perché fa ciò che gli consente l’art. 2, ossia non rende nota la propria identità.

Ci si chiede, quindi, in cosa debba consistere l’“artificio” la cui adozione rende illecita la raccolta di dati personali. Una giusta soluzione potrebbe essere quella che fa leva sul carattere invasivo della condotta del giornalista nei riguardi di eventuali persone. Per fare degli esempi, il giornalista che registra un colloquio compromettente tra due persone dopo essersi introdotto nella loro abitazione spacciandosi per idraulico o per prete, adotta senz’altro un artificio invasivo della loro sfera privata. Non chi, invece, camuffatosi da musicista di strada, cattura le immagini dell’alto magistrato mentre si reca a casa del famoso politico alla vigilia della sentenza che lo assolverà.

Insieme alla esclusione dell’obbligo dell’informativa e del consenso, altre norme contribuiscono a garantire al giornalista una tutela privilegiata. L’art. 2 del Codice di deontologia gli permette di “conservare i dati raccolti per tutto il tempo necessario al perseguimento delle finalità proprie della sua professione”; e lo tutela “per quanto concerne le fonti delle notizie, ai sensi dell’art. 2 legge n. 69 del 1963” (norma, quest’ultima, che impone al giornalista il segreto professionale). L’ampiezza della formula adottata porta a ritenere, da un lato, che il giornalista può senza limiti detenere dati altrui nel proprio archivio personale in quanto esercente l’attività giornalistica; dall’altro, che nessun interessato può esercitare il generale diritto di accesso, previsto dall’art. 7 del Codice della Privacy, ai dati contenuti nell’archivio personale del giornalista; né ottenere spiegazioni sulla loro origine, stante il segreto professionale sulla fonte.

Conclusione peraltro logica. Se il diritto di accesso dà in generale ad ogni interessato la possibilità di verificare se dati personali siano stati raccolti e conservati in violazione delle norme sulla informativa e sul consenso, sarebbe una contraddizione prevederlo nei confronti di soggetti esentati dall’obbligo di rendere quell’informativa e di ottenere quel consenso.

Tuttavia, il codice di deontologia ha previsto all’art. 2 una forma di accesso ai dati personali contenuti negli archivi editoriali dell’organo di informazione, imponendo all’editore di pubblicare sulla propria testata “almeno due volte l’anno l’esistenza dell’archivio e il luogo dove è possibile esercitare i diritti” di accesso ai dati personali, con indicazione del responsabile del trattamento. In genere, la richiesta di accesso viene dall’interessato effettuata dopo l’uscita dell’articolo o del servizio ritenuto lesivo, allo scopo di ottenere il blocco o la cancellazione o la rettifica dei dati personali che lo riguardano. Qui l’interessato può anche chiedere di conoscerne l’origine, in applicazione delle regole generali di cui all’art. 7 del Codice della Privacy. E l’editore non può opporre il segreto professionale, invocabile invece dal giornalista a tutela dell’archivio personale.

I veri, unici limiti che il giornalista incontra nel trattamento di dati personali riguarda la loro comunicazione e diffusione. Qui non basta che la comunicazione (a uno o più soggetti determinati) e la diffusione (a un numero indeterminato di persone) siano “funzionali all’esercizio della professione e per l’esclusivo perseguimento delle relative finalità”, come è richiesto per gli altri tipi di trattamento. Secondo l’art. 137, comma 3°, del codice della privacy, la comunicazione e la diffusione di dati personali incontrano “i limiti del diritto di cronaca […] e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico”.

Ciò significa che la diffusione di dati personali che, come tali, identificano o rendono identificabile una persona (in particolare, le generalità e l’immagine) deve rispettare i tradizionali requisiti su cui si basa il diritto di cronaca. Di conseguenza, oltre ad essere esatti nel rispetto del requisito della verità, la diffusione dei dati personali deve rispondere ad una reale esigenza informativa nel rispetto del requisito dell’interesse pubblico. E’ chiaro che qui nessun problema di “continenza formale” può porsi, essendo inconcepibile la “forma espositiva” in un trattamento di dati personali.

Da tutto questo si ricava che l’aspetto dell’interesse pubblico è nel codice della privacy particolarmente sentito. Come già visto in Il diritto alla riservatezza, vi sono fatti privati alla cui divulgazione non vi è alcuna utilità sociale. Ma quando il fatto è in sé rilevante, non è detto che l’interesse pubblico alla acquisizione della notizia debba automaticamente estendersi alla identificazione del protagonista. Conoscere nome e cognome, o le fattezze fisiche, di chi ha tentato il suicidio gettandosi sotto il treno del metrò, o del cliente preso in ostaggio durante una rapina in banca, non aggiunge alcuna utilità per i fruitori dell’informazione e può creare gravi disagi al protagonista stesso.

Sotto questo aspetto si può dire che l’art. 137, comma 3°, del codice della privacy rappresenta la codificazione del diritto alla riservatezza. La tutela del dato personale è lo strumento attraverso cui viene garantito quel diritto. E la diffusione di un dato personale in violazione della legge sulla privacy può portare alla lesione del diritto alla riservatezza. Ciò che da molti anni viene riconosciuto in ogni sede giudiziaria, oggi è espressamente previsto da una norma di legge. Considerando dati personali sia il nome che l’immagine di un individuo, la norma ne subordina la legittimità della diffusione alla sussistenza di un interesse pubblico. Solo in questo caso un individuo può essere “identificato” dalla collettività e il relativo “fatto” sganciato dalla sua sfera privata.

LA DIFFUSIONE DI IMMAGINI E GENERALITA’

LA DIFFUSIONE DI DATI SENSIBILI