La satira politica
secondo Dario Fo
tradotta in termini giuridici

Bologna, 16 luglio 2008

(avv. Antonello Tomanelli)

La satira è “un atto di rifiuto e come tale non può che essere acceso”. La satira è “una controaggressione che risponde allo smacco del Potere con uno sghignazzo che non può essere elegante”. La satira è “nata per mettere il re in mutande”. Per questo “il linguaggio della satira non può che essere virulento, sfacciato, insultante”. Sono parole di Dario Fo, indiscusso re della satira, estrapolate da un’intervista resa a Micromega all’indomani del “No Cav Day” dell’8 luglio, e pronunciate a difesa di quei comici, prima fra tutti Sabina Guzzanti, le cui performance lanciate dal palco di Piazza Navona sono state oggetto di attacchi bipartisan.

Il pensiero di Dario Fo è volutamente rivolto alla satira politica, quel genere di satira che si sostanzia in un attacco al Potere. L’autore satirico reagisce dal basso ad un discutibile uso del Potere imposto dall’alto. E lo fa con uno “sghignazzo”.

Lo sghignazzo cui allude Dario Fo è l’elemento che distingue la satira dalla critica, e che meglio rappresenta la diversità del linguaggio attraverso cui essa si manifesta. La critica è valutazione negativa ma lucida, che implica l’analisi di un fatto o di un comportamento. E il suo linguaggio può essere duro nella misura in cui sia utile a far meglio comprendere al pubblico quella valutazione. La satira invece deride, sbeffeggia, colloca il personaggio pubblico in una dimensione grottesca. La satira non vuole valutare, ma mettere “il re in mutande”, come dice Dario Fo. Per questo necessita di un linguaggio che “non può essere elegante”.

Il Pensiero di Dario Fo trova conforto in una giurisprudenza trentennale, che individua l’unico parametro di valutazione della legittimità della satira nel “nesso di coerenza causale” tra qualità della dimensione pubblica del personaggio preso di mira e contenuto del messaggio satirico. Bisogna cioè guardare a cosa dice l’autore satirico e confrontarlo con la rappresentazione del personaggio nella società.

Si consideri la qualità della dimensione pubblica come un enorme contenitore di vetro nel quale confluiscono tutte le informazioni che il personaggio, volente o nolente, si vede attribuire dai media nel corso della sua vita pubblica: fattezze fisiche, tic, idee, modo di esprimersi, guai giudiziari, gaffes, pettegolezzi, etc. Ogni informazione costituisce un frammento, che inserito in quel contenitore contribuisce a caratterizzare la sua dimensione pubblica. L’autore satirico prende uno o più di questi frammenti, li cesella, li orna e li ripropone al pubblico. Un’attività “artigianale” che va ricondotta all’art. 33 della Costituzione, che sancisce senza limitazione alcuna il principio della libertà dell’arte (“L’arte e la scienza sono libere”). I frammenti così riproposti danno luogo ad un messaggio satirico che sarà sempre in coerenza causale con la qualità della dimensione pubblica del personaggio cui quei frammenti appartengono.

In presenza del nesso di coerenza causale, non può avere alcun senso valutare la legittimità della satira secondo i parametri della verità e della continenza formale, elementi che al contrario si esigono nella cronaca e nella critica. La satira non soddisfa esigenze informative, né si propone di analizzare o valutare un comportamento. La satira, come dice Dario Fo, è uno "sghignazzo” cui il concetto di “nesso di coerenza causale” attribuisce quel senso, quel significato che permettono all’autore satirico di creare con il pubblico un “circuito d’intesa”, usando un’espressione cara alla stessa giurisprudenza. E ritenere una satira “volgare” prescindendo dalla valutazione dell’esistenza di quel nesso significherebbe limitare la libertà dell’arte garantita dall’art. 33 Cost. Sarebbe come sostenere che un dipinto è tecnicamente osceno, quindi illecito, a causa dell’eccessivo uso del colore rosso da parte del pittore. L’unico limite che incontra l’autore satirico è il non poter “lavorare” un frammento non presente in quel contenitore, ossia da lui appositamente creato.

Così, diventa lecita la satira di Sabina Guzzanti, anche se adopera un linguaggio “virulento, sfacciato, insultante” quando condanna papa Ratzinger “all’Inferno, tormentato da dei diavoloni, frocioni, attivissimi e non passivissimi”. E’ il modo della Guzzanti di mettere “in mutande” il Pontefice, il prezzo che gli fa pagare per la sua nota intransigenza nel condannare l’omosessualità. Come fece Dante nella Divina Commedia, che colloca nel girone infernale dei simoniaci Papa Bonifacio VIII ed altri ecclesiastici per aver fatto commercio di beni sacri, condannandoli a restare a testa in giù mentre il fuoco brucia loro le piante dei piedi.