Da storico a clandestino:
la vicenda kafkiana
di Carlo Ruta

Bologna, 23 giugno 2008

(avv. Antonello Tomanelli)

La strage di Portella della Ginestra. L’omicidio del giornalista Giovanni Spampinato. Gli strani affari della Banca Agricola Popolare di Ragusa. Sono solo alcuni degli argomenti che Carlo Ruta, siciliano, storico e giornalista, ha negli anni approfondito, analizzato e condensato in più di duemila documenti pubblicati sul suo sito “accadeinsicilia.net”.

Carlo Ruta ama la Sicilia. Il suo lavoro di inchiesta e di ricostruzione storica relaziona il lettore a fatti che stimolano inevitabili riflessioni sul come e sul perché la Mafia spadroneggia. E, come spesso accade in questi casi, Carlo Ruta è stato fermato.

Ma a fermarlo non è stata la mafia, ma un tribunale della Repubblica. Il tribunale di Modica (Ragusa) lo ha appena condannato per il reato previsto dall’art. 16, comma 1°, L. n. 47/1948 (legge sulla stampa), che punisce con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a euro 250 “chiunque intraprenda la pubblicazione di un giornale o altro periodico senza che sia stata eseguita la registrazione prescritta dall’art. 5”. Gli hanno inflitto una pena pecuniaria di poche centinaia di euro (oltre alle spese legali), ma quanto basta per legittimare il precedente provvedimento con cui il giudice aveva impedito ogni accesso al sito disponendone il sequestro.

A detta del tribunale, Ruta avrebbe dovuto registrare il proprio sito presso la cancelleria del tribunale. Lo imporrebbe l’art. 1 della legge n. 62/2001, che ha introdotto nell’ordinamento il concetto di prodotto editoriale, includendovi anche il sito web, e sottoponendolo all’obbligo di registrazione, previsto dall’art. 5 della legge sulla stampa, quando risulti “diffuso al pubblico con periodicità regolare”. Il tribunale di Modica ha concluso per la regolare periodicità degli scritti di Ruta nonostante una perizia della polizia postale, disposta dallo stesso tribunale, avesse chiarito che l’aggiornamento del sito avveniva non quotidianamente, settimanalmente, mensilmente, trimestralmente, etc., ma “alla bisogna”, diciamo. E, non di meno, nonostante l’art. 7, comma 3°, del decreto legislativo n. 70/2003, emanato per recepire una direttiva comunitaria, stabilisca che “la registrazione della testata editoriale telematica è obbligatoria esclusivamente per le attività per le quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle provvidenze previste dalla legge 7 marzo 2001 n. 62”, ossia dei contributi che lo Stato riconosce alle testate telematiche con determinati requisiti. In altre parole, chi non è interessato a tali provvidenze non è obbligato alla registrazione.

Invece, a detta del tribunale di Modica, il Ruta era obbligato a registrare il proprio sito web. E, non facendolo, ha commesso il reato di stampa clandestina.

E’ agevole capire come tale decisione lasci davvero perplessi, anche alla luce delle conclusioni cui era pervenuta la polizia postale. Ma non è nemmeno questo l’aspetto “peggiore” della sentenza. Vi è ben altro: l’applicazione del reato di “stampa clandestina” ad un sito web, in spregio al più importante principio che opera nel diritto penale.

L’art. 1 del codice penale stabilisce che “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente previsto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”. Una formula molto simile a quella contenuta nell’art. 14 delle Disposizioni sulla legge in generale, entrate in vigore nel ’42 insieme al codice civile: “Le leggi penali […] non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. E’ il divieto di analogia in materia penale, cui viene unanimemente attribuita valenza costituzionale grazie alla formulazione dell’art. 25, comma 2°, Cost., secondo cui “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.

L’analogia è quel procedimento logico attraverso cui il giudice, di fronte a un “vuoto normativo”, applica al caso sottopostogli una norma precedentemente formulata per disciplinare casi che appaiono simili. In altre parole, col procedimento analogico il giudice si sostituisce al legislatore creando la norma da applicare al caso concreto che ha davanti, e che non può rientrare in alcuna delle norme esistenti. Generalmente ammessa per tutelare un diritto, l’analogia è tassativamente vietata in diritto penale, dove entra in gioco la libertà personale.

Ed è proprio quello che è capitato al processo contro Carlo Ruta. Attualmente non esiste alcuna norma penale che "espressamente" punisce chi pubblica su un sito che andrebbe registrato. Invece il tribunale di Modica lo ha condannato per stampa clandestina, applicando (in via analogica) l’art. 16 della legge sulla stampa, nonostante l’art. 1 parli chiaro: “Sono considerate stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”. In altre parole, allo stato attuale della legislazione penale e considerando il divieto di analogia, può commettere il reato di stampa clandestina soltanto chi lavora col cartaceo.

Non a caso il legislatore, quando ha disciplinato il sistema radiotelevisivo con la legge n. 223/1990 (legge Mammì), ha appositamente creato una norma (art. 30) per punire le trasmissioni a carattere osceno, quelle lesive del sentimento degli adolescenti e quelle a carattere raccapricciante, tutti reati già previsti rispettivamente dal codice penale (art. 528) e dalla legge sulla stampa (artt. 14 e 15). Ciò in quanto il legislatore ben sapeva che quelle norme penali potevano riguardare soltanto le pubblicazioni cartacee, non potendo ricondursi la trasmissione televisiva al concetto di “stampa” (così come descritto dal già visto art. 1 L. n. 47/1948) a causa del divieto di analogia in materia penale. Ed è significativo che il legislatore, nell’emanare la L. n. 62/2001, abbia sì previsto la registrazione del sito web aggiornato con carattere di periodicità, ma non il reato di “prodotto editoriale clandestino”.

E che il reato di stampa clandestina non possa essere esteso alle pubblicazioni web senza apposito intervento legislativo, è una conclusione che si ricava anche da un importante dato giurisprudenziale. Riguarda l’art. 57 del codice penale (norma introdotta con legge n. 127/1958) che punisce a titolo di colpa il direttore responsabile di un periodico che omette di esercitare il controllo necessario ad impedire che venga commesso un reato attraverso una pubblicazione. Ebbene, diversi tribunali hanno affermato con sentenza che questa norma non può applicarsi al direttore responsabile di una testata telematica registrata, perché può riguardare solo i periodici cartacei, pena la violazione del divieto di analogia.

Ciò conferma come le norme penali contenute nella L. n. 47/1948, finché non si interviene con una legge, non possano applicarsi ad una realtà (quale il web) ben lontana dall’essere solamente immaginata dal legislatore del 1948. E non si può fare a meno di concludere che nella sentenza del tribunale di Modica vi sia qualcosa che non quadra, se si considera che una delle sentenze ora indicate proviene dal tribunale di Catania (8 aprile 2005).

Quella del tribunale di Modica non è una sentenza che deve preoccupare, essendo scaturita in un particolarissimo contesto. Laddove si ha rispetto per la Costituzione, non potranno esserci sentenze simili. E Carlo Ruta, se non in appello, avrà sicuramente giustizia dalla Corte di Cassazione, che ha sede in Roma, e che non esiterà a rilevare quanto appena detto. Ma resta l’amarezza per una decisione che non ha precedenti in Italia (e pare anche in Europa). E che ha cancellato anni di duro lavoro e privato la collettività, sia pure temporaneamente, di un flusso informativo dalla qualità difficilmente replicabile.