Un 'tirapiedi' al Tg1

Il 4 novembre 1991, durante la trasmissione televisiva “Mezzogiorno italiano” condotta da Gianfranco Funari su “Italia 1”, il giornalista M.B., parlando del conduttore del Tg1 G.P., lo addita al pubblico come “tirapiedi di Forlani”.

G.P. ritiene l’affermazione gravemente diffamatoria e cita M.B. dinanzi al Tribunale di Milano chiedendo il risarcimento dei danni. Il Tribunale accoglie la domanda condannando M.B. al pagamento di Lire 75.000.000 in favore di G.P. M.B. ricorre in appello.

La Corte d’Appello di Milano conferma la condanna, riducendo tuttavia il risarcimento a Lire 20.000.000. Nella sentenza si afferma che “L’espressione 'tirapiedi' di un uomo politico, riferita ad un giornalista televisivo, ha contenuto obiettivamente diffamatorio e non è scriminata dall’esercizio del diritto di critica in quanto priva di interesse pubblico”.

(App. Milano 19 maggio 1998)
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Dal pronunciamento di una sola parola (“tirapiedi”) è venuta fuori una controversia che presenta aspetti giuridici interessantissimi in tema di diritto di critica. Vale la pena analizzarla attentamente, cominciando dal significato deleterio che il termine “tirapiedi” può assumere, soprattutto se riferito ad un giornalista.

Il “tirapiedi” era l’aiutante del boia che tirava gli impiccati per i piedi allo scopo di abbreviarne l’agonìa. Successivamente il termine è servito per indicare mansioni di infimo ordine. In epoca moderna è riferito, in senso spregiativo, a chi si mette servilmente a disposizione di persone potenti, anche allo scopo di ottenerne i favori. Il giornalista, invece, è colui che fa informazione garantendone l’obiettività e la completezza.

L’essere servile nei confronti di un potente uomo politico quando si occupi un punto nevralgico dell’informazione, magari ottenuto grazie a lui, fa pensare quantomeno alla rinuncia ad un’informazione obiettiva tutte le volte che possa tornare utile al politico stesso. Si capisce agevolmente, quindi, che l’essere indicati come tirapiedi di un importante uomo politico è l’offesa più grave che un giornalista possa sentirsi rivolgere. Tra l’altro, nella fattispecie in questione l’espressione “tirapiedi” è stata attribuita ad uno dei conduttori del Tg1, la testata giornalistica televisiva più importante del paese.

Giustamente la sentenza ha ritenuto che l’espressione fosse lesiva del decoro professionale di G.P., in quanto ha insinuato il dubbio che il giornalista, in un’ottica di asservimento nei confronti dell’on. Forlani, fornisse un’informazione interessata e tendenziosa. Qui occorre verificare per quale motivo non si sarebbe potuto riconoscere a M.B. il diritto di critica.

Innanzitutto bisogna considerare il requisito della verità. Sembra arduo che l’accusa di essere un “tirapiedi” possa trovare un riscontro obiettivo. Bisognerebbe dimostrare che G.P. versa in uno stato di totale soggezione e servilismo nei confronti dell’on. Forlani e che manipola le notizie in senso a lui favorevole.

Una prova estremamente difficile da fornire. Al limite, sarebbe meno difficile provare che risponde a verità il termine “lottizzato”, che abbiamo visto ricondotto dalla giurisprudenza nel diritto di critica. Può essere “lottizzato” un giornalista che ha forti legami con una fazione politica e che grazie a questa è riuscito ad entrare in Rai. Non sarebbe neanche necessario dimostrare una sua eventuale faziosità nel fare informazione, poiché teoricamente anche il giornalista “lottizzato” può fare informazione obiettiva.

L’informazione del giornalista “tirapiedi” di un uomo politico, invece, è necessariamente tendenziosa. E’ resa in favore e secondo le sue direttive. Ciò andrebbe, quindi, dimostrato se si volesse far rientrare nel diritto di critica l’attribuzione di quel termine ad un giornalista.

Ma la sentenza non parla della mancanza del requisito della verità per escludere il diritto di critica. Cita la mancanza di un interesse pubblico. Come dire che il fatto che un conduttore del Tg1 possa violare il principio dell’obiettività dell’informazione, non merita l’interessamento della collettività. E’ un’affermazione che non può essere condivisa.

Un conduttore del Tg1 che manipolasse l’informazione in modo da asservirla ai dettami di un potente uomo politico, è una notizia che metterebbe in serio dubbio il corretto funzionamento dell’intero servizio pubblico televisivo. E’ una notizia che metterebbe in dubbio la verità di tutte le notizie rese. Qui non si parla più dell’interesse pubblico alla conoscenza di un fatto rilevante, ma dell’interesse pubblico alla sopravvivenza stessa dell’informazione. In una società democratica, è il massimo livello di interesse pubblico stimolabile da una notizia. Pertanto, non si riesce a capire per quale motivo la Corte abbia escluso che possa interessare la collettività la notizia secondo cui un giornalista del Tg1 manipola l’informazione in favore di un potente.