Un sindaco da osteria

Tra il settembre e l’ottobre 1996 vengono pubblicati sul periodico “C.” alcuni articoli a firma T.R., che è anche direttore responsabile ed editore. Gli articoli prendono di mira L.M., sindaco di C., piccolo comune in provincia di Venezia, accusandolo di cattiva amministrazione.

Il sindaco viene accusato di essersi voluto “arrogare la carica di assessore alla pesca”, atto che l’articolo bolla come “proditorio e demagogico che ha rivelato la sua incapacità culturale di capire e risolvere i problemi del Consorzio peschereccio”. L.M. viene descritto come “non permeato della nostra cultura” e “alieno, calato a C. da chi ordisce i disegni elettorali dentro le segreterie nazionali degli schieramenti politici”. A causa sua “l’osteria E. è stata consacrata ufficialmente come unico centro culturale di C., tra cartocci di mais, grappoli d’uva, salami e salsicce appese alle travi”, dove il sindaco “è stato spesso invitato a presenziare a diverse iniziative, più numerose di quelle che avvengono tra le mura del consiglio comunale”.

L.M. querela T.R. per diffamazione. Il Tribunale di Venezia riconosce la natura diffamatoria degli articoli. Ma la Corte d’Appello di Venezia riforma la sentenza riconoscendo la scriminante del diritto di critica. Si va in Cassazione.

La Suprema Corte riconosce il diritto di critica. Ponendo l’accento sulla differenza tra cronaca e critica, afferma che “La cronaca è narrazione di fatti e accadimenti, mentre la critica è espressione di opinioni e di mere valutazioni”; che caratteristica della cronaca “è il rigoroso limite della verità”, mentre la critica “in quanto formulazione congetturale di personali convincimenti in ordine alla genesi di determinati fenomeni naturali o sociali, non può ritenersi soggetta, con pari intensità, al limite anzidetto previsto per la cronaca”. Questo significa che “la critica deve avere un contenuto di veridicità, ma nel senso che necessita soltanto il semplice riferimento ad un fatto storicamente vero o ad un evento realmente accaduto”.

Ciò soprattutto quando ci si trovi di fronte “non già ad eventi di cronaca o a fenomeni soggetti a rigide leggi di meccanicismo deterministico, bensì a manifestazioni di vita politica o amministrativa, per le quali un dato evento può essere la risultante di molteplici condizioni, tutte analogamente plausibili”. In questi casi “sarebbe davvero azzardato parlare di verità e pretendere di ricostruire il senso politico di una vicenda attraverso gli ordinari strumenti di accertamento giudiziario”.

(Cass. 24 maggio 2002 n. 20474)
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La sentenza risolve correttamente la questione riconoscendo che T.R. non ha portato un attacco personale a fini denigratori, ma ha voluto sollevare una problematica politica di tutto rilevo: quella di una corretta amministrazione della vita locale. Nessun problema, quindi, per quel che riguarda la sussistenza dell’interesse pubblico.

Un discorso più complesso richiede la questione del requisito della verità, vero punto dolente del diritto di critica. Qui non è come nel diritto di cronaca, dove la questione si risolve richiedendo l’assoluta identità tra fatto reale e fatto narrato.

Per la Suprema Corte la critica consiste nella valutazione di un accadimento, che per forza di cose il critico interpreta ed elabora. Al termine della elaborazione, non avrà più senso parlare di “verità”, poiché il risultato di quella elaborazione sarà necessariamente diverso dal fatto prodotto dalla realtà fenomenica e riferito dalla cronaca. Di conseguenza, l’unica “verità” che può imporsi al critico è che la sua valutazione semplicemente si riferisca a un fatto realmente accaduto, la cui elaborazione sarà proprio l’oggetto dell’attività di critica.

Questa regola è riferibile a qualsiasi accadimento che venga elaborato da un’attività di critica. A maggior ragione la regola è applicabile se l’attività di critica ha per oggetto non fatti “soggetti a rigide leggi di meccanicismo deterministico”, ma “manifestazioni di vita politica o amministrativa per le quali un dato evento può essere la risultante di molteplici condizioni, tutte analogamente plausibili”.

Questo passaggio della sentenza riveste grande importanza per l’identificazione dei limiti del diritto di critica. Per fare un esempio, se il comportamento da criticare consistesse in un fatto preciso, consumatosi istantaneamente nel tempo, il critico che dovesse occuparsene godrebbe di una limitata libertà di manovra nell’attaccarne l’autore. Dovendo la critica indirizzarsi verso una realtà il più possibile oggettivizzata, ogni critica dovrebbe quantomeno riferirsi a quell’unico fatto.

Se invece il comportamento consistesse nell’operato di un organo in cinque anni di attività, l’area di legittimità della critica sarebbe evidentemente immensa, poiché il critico avrebbe a disposizione tanti riferimenti quanti sono i fatti attribuibili al politico in quei cinque anni. Con il vantaggio di non dover temere nessuna conseguenza dall’accostamento dei fatti, essendo operazione del tutto naturale nella critica, ma estremamente rischiosa nella cronaca.

Ma la sentenza vuole dire di più. Giustamente la Suprema Corte fa notare come una gestione politica sia nella maggior parte dei casi il prodotto di molteplici concause. Anzi, spesso è oggettivamente impossibile ricondurre una cattiva gestione ad una precisa responsabilità politica. Ciò nonostante, una tale riconducibilità rientra pienamente nel diritto di critica. Per questo la Suprema Corte ritiene che per la critica sia “azzardato parlare di verità”, proprio perché è impossibile, oltre che illogico, applicare alle vicende politiche “gli ordinari strumenti di accertamento giudiziario” della verità.