Ddl sulla sicurezza:
il sapore fascista
dell'emendamento D'Alia

Bologna, 23 febbraio 2009

(avv. Antonello Tomanelli)

Quando nel 1946 i Costituenti si misero al lavoro per scrivere la Costituzione Repubblicana del 1948, avevano le idee molto chiare in materia di libertà di manifestazione del pensiero. Necessitava una rottura con l’ordinamento fascista, nato sotto la vigenza dello Statuto Albertino del 1848 (una sorta di “Costituzione flessibile”, cioè modificabile con legge ordinaria) nel quale mancava totalmente una norma che garantisse la libertà di manifestazione del pensiero, intesa come diritto dell’individuo. D’altro canto, le leggi del fascismo fin dal 1923 avevano conferito ai Prefetti (che costituiscono l’articolazione periferica del Governo) un potere pressoché assoluto di procedere al sequestro di quotidiani e periodici, nonché all’allontanamento dei loro direttori. Un potere reso possibile dalla timidezza con cui l’art. 28 dello Statuto Albertino pretendeva di garantire la libertà di stampa (“La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”).

La rottura col passato fascista avvenne con la formulazione dell’art. 21 Cost., comma 1°, secondo cui “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (si badi bene: “ogni altro mezzo di diffusione”, come è oggi internet). Un diritto costituzionale di tutti, quindi, non di una ristretta cerchia di soggetti assunti da giornali costantemente sotto il tiro dei prefetti. E per la stampa veniva prevista al comma 2° una libertà incondizionata: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, ossia i due istituti utilizzati sistematicamente dai prefetti fascisti.

Tuttavia, i Costituenti sapevano bene che la rottura definitiva col Ventennio fascista poteva avvenire soltanto stabilendo inequivocabilmente, e a livello costituzionale, l'assoluta incompetenza di qualsiasi organo facente capo al Potere Esecutivo (come sono i prefetti) di intervenire in materia di libertà di stampa. Nacque così il terzo comma dell’art. 21 Cost., il quale stabilì che la stampa può essere oggetto di sequestro “soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi”. In altre parole, limitazioni alla libertà di stampa possono provenire soltanto dal Potere Giudiziario, ossia da quella magistratura che secondo l’art. 104, comma 1, Cost. “costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, segnatamente dal Potere Esecutivo.

E in armonia con quanto stabilito dall’art. 21 Cost., con legge n. 645 del 1952 (art. 8) il legislatore conferì alla magistratura il potere di sequestrare giornali, pubblicazioni o stampati utilizzati per l’apologia del fascismo. Una legge significativamente intitolata “Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione”, ossia quella che vieta “la ricostituzione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Questo rappresenta l’unico caso in cui la magistratura può sequestrare un giornale o un periodico, in obbedienza al precetto costituzionale che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista.

Alla fine degli anni ’90 il fenomeno internet dilaga. La Rete diventa strumento privilegiato di diffusione del pensiero. Il legislatore interviene con la legge n. 62 del 2001, dando all’art. 1, comma 1°, la definizione di “prodotto editoriale”, includendovi il sito internet. Stabilisce al comma 3° che al prodotto editoriale si applicano le disposizioni di cui all’art. 2 della legge sulla stampa (ossia indicazione, su ogni stampato, di luogo, data di pubblicazione, nome del proprietario), nonché l’obbligo di registrazione presso il tribunale (l’obbligo di cui all’art. 5 della legge sulla stampa) nel caso in cui il prodotto editoriale venga “diffuso al pubblico con periodicità regolare”.

Qui appare evidente la tendenza del legislatore ad accostare la libera manifestazione del pensiero veicolata tramite la Rete al concetto di “stampa”. Una tendenza di cui il legislatore non può fare a meno, se vuole in qualche modo controllarne i contenuti, che però produce alcuni “effetti indesiderati”. Primo fra tutti, l’imbarazzo di quei magistrati che per oscurare un sito attraverso cui viene commesso un reato (in genere la diffamazione) sono soliti ricorrere al sequestro preventivo, strumento di carattere generale che la magistratura può sempre utilizzare sul presupposto che “la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati” (art. 321 del codice di procedura penale). Insomma, uno strumento utilizzabile per qualsiasi tipo di reato. Per capirci, è lo strumento che permette al magistrato di sequestrare l’immobile che il proprietario adibisce a deposito di droga.

L’imbarazzo deriva dal fatto che quanto più la libertà di manifestazione del pensiero in Rete viene dal legislatore accostata al concetto di “stampa”, tanto più finisce per godere di una tutela rafforzata (di natura costituzionale: art. 21, comma 3°) che impedisce l’applicazione dell’art. 321 del codice di procedura penale (che ha valore di legge ordinaria). Come già detto, attualmente l’unico reato per il quale la magistratura può procedere al sequestro (e alla chiusura) di un giornale o periodico è l’apologia del fascismo, caso previsto in esecuzione di quella norma costituzionale che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista. Non, ad esempio, la diffamazione, reato che potrebbe costituire presupposto per un sequestro preventivo solo dissociando nettamente la Rete dal concetto di “stampa” (cosa che il legislatore non ha mai fatto e non farà mai).

Tutto questo aiuta a comprendere quanto grossolana sia l’incostituzionalità del cosiddetto emendamento D’Alia, ossia l’art. 50 bis del disegno di legge sulla sicurezza in corso di approvazione al Senato. La norma stabilisce che”Quando si procede per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero per delitti di apologia di reato […] e sussistono concreti elementi che consentano di ritenere che alcuno compia detta attività di apologia o di istigazione in via telematica sulla rete internet, il ministro dell’Interno […] può disporre con proprio decreto l’interruzione dell’attività indicata, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine”.

Ma la grossolana incostituzionalità non sta tanto nel voler sostanzialmente prevedere un’ipotesi di sequestro al di fuori di una norma costituzionale (come quella che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista e che ha ispirato, come si è visto, l’art. 8 della legge n. 645 del 1952, che consente alla magistratura di sequestrare pubblicazioni o giornali che inneggiano al fascismo). La grossolana incostituzionalità sta nel voler attribuire il potere di sequestro di un sito internet, che è mezzo di diffusione del pensiero (sempre più assimilato dallo stesso legislatore al concetto di “stampa”) al ministro dell’Interno, che è organo del Potere Esecutivo.

E’ il ripristino del potere di sequestro che vigeva nel regime fascista, conferito questa volta a livello centrale (ministro anziché prefetti). Nella irreversibile tendenza ad accostare la libera manifestazione del pensiero in Rete al concetto di “stampa”, il legislatore è arrivato ad attribuire al Potere Esecutivo ciò che l’art. 21 Cost. attribuisce in via esclusiva al Potere Giudiziario. Tra l’altro, si noti come l’emendamento preveda, contro il provvedimento di sequestro emesso dal ministro, la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria. Insomma, il Potere Giudiziario, costituzionalmente titolare del potere di sequestro in materia di stampa, addirittura degrada ad organo di riesame.

Ammesso che tale norma venisse approvata, avrebbe certamente vita breve: la Corte Costituzionale ne rileverebbe l’incostituzionalità. Ma in attesa della decisione della Consulta, quella sciagurata norma sarebbe destinata a lasciare parecchi feriti sul campo, e a far retrocedere ancora l’Italia nella classifica mondiale della libertà di stampa. Paragoni con paesi come Cina, Birmania, Corea del Nord sono sempre meno azzardati.