Berlusconi e le squillo:
la Rai copre la tragedia
di un uomo ridicolo

Bologna, 22 giugno 2009

(avv. Antonello Tomanelli)

Che il controllo dei partiti sulla Rai sia da sempre responsabile del depotenziamento dell’informazione italiana è risaputo. Ma che si arrivasse al punto da non vedere in due dei Tg Rai nemmeno un cenno al caso delle ragazze squillo pagate dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per allietare le sue serate a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli, e poi addirittura candidate nelle liste del Pdl, francamente è una cosa che nessuno si aspettava.

Inizialmente la procura di Bari, indagando su presunti episodi di corruzione nella sanità pugliese, aveva appreso da alcune intercettazioni che uno degli indagati, Gianpaolo Tarantini, procacciava numerose ragazze a pagamento per i festini che si tenevano nelle residenze del presidente del Consiglio. Una circostanza che di per sé non provava nulla, perché Tarantini al telefono poteva anche essere un buffone che millanta servizi resi al capo del Governo. Nonostante ciò, sul caso i Tg della Rai avevano comunque dedicato alcuni servizi.

Ma da sabato 20 giugno la musica è cambiata parecchio. Non può trattarsi di una millanteria di Tarantini, perché una dopo l’altra quattro ragazze hanno testimoniato davanti ai magistrati di aver incontrato in diverse occasioni Silvio Berlusconi dietro pagamento di ingenti somme di denaro. Eppure, da quel momento nel Tg1 e nel Tg2 (ma non nel Tg3) la notizia è scomparsa. Non si parla più delle ragazze squillo di Berlusconi, nonostante la loro testimonianza abbia inevitabilmente rafforzato l’attendibilità della notizia. Al contrario, i media televisivi di tutto il mondo riprendono ampiamente la notizia.

Ovviamente, così facendo i neo direttori di Tg1 e Tg2, Augusto Minzolini e Mario Orfeo, hanno commesso una grave violazione del dovere più pregnante di ogni giornalista: il dovere di verità. Un dovere che viene violato non solo quando si dà una notizia falsa, ma anche quando si omette di raccontare un fatto di interesse pubblico.

Dice infatti la Carta dei Doveri del giornalista: “Il giornalista deve rispettare, coltivare e difendere il diritto all’informazione di tutti i cittadini; per questo ricerca e diffonde ogni notizia o informazione che ritenga di pubblico interesse, nel rispetto della verità e con la maggiore accuratezza possibile”. Inoltre, “non deve omettere fatti o dettagli essenziali alla completa ricostruzione dell’avvenimento”.

Se l’omissione di un “dettaglio” nella diffusione di una notizia può considerarsi una violazione della Carta dei Doveri, figuriamoci come va considerato il reiterato black out dei Tg (che costruiscono il bagaglio informativo del 70% degli italiani) su una notizia di indubbio interesse pubblico, quale quella che ipotizza il reato di induzione della prostituzione a carico del presidente del Consiglio. Il cui partito, punto di riferimento dell’elettorato cattolico, si è tra l’altro distinto in una lotta senza quartiere alle lucciole. L’omissione è ancor più grave nella misura in cui favorisce la persona del presidente del Consiglio, dal momento che per la stessa Carta dei Doveri “La responsabilità del giornalista verso i cittadini prevale sempre nei confronti di qualsiasi altra” e che “Il giornalista non può mai subordinarla agli interessi di altri e particolarmente a quelli dell’editore, del Governo o di altri organismi dello Stato”.

Omettendo di informare la collettività sui quei clamorosi sviluppi, ciascuno dei due direttori ha senza dubbio “compromesso la dignità professionale fino a rendere incompatibile con la dignità stessa la sua permanenza all’Albo”. E’ quanto recita l’art. 55 della L. n. 69 del 1963 sull’ordinamento della professione di giornalista, quando fissa il presupposto per l’applicazione della sanzione della radiazione, la più grave sanzione disciplinare che possa essere comminata a un giornalista.

Ovviamente i destinatari della sanzione dovrebbero essere soltanto i direttori dei due Tg, i quali per principio non sottostanno ad alcuna gerarchia. La nostra Costituzione, infatti, vieta la censura (art. 21), ossia quell’atto di un organo pubblico che impedisce la diffusione di una notizia o una manifestazione di pensiero, e che negli ordinamenti autoritari si materializza proprio nel rapporto gerarchico tra i direttori delle testate giornalistiche e l’organo statale deputato al loro controllo.

Ciò significa che i due direttori non potrebbero mai essere considerati alla stregua di “vittime” che obtorto collo hanno proceduto alla omissione della notizia, proprio perché il nostro ordinamento non concepisce un simile meccanismo. Non solo. La stessa deontologia (Carta dei Doveri) impone al giornalista di reagire ad ogni indebita ingerenza, obbligandolo a ricercare e diffondere “le notizie di pubblico interesse nonostante gli ostacoli che possono essere frapposti al suo lavoro” e a compiere “ogni sforzo per garantire al cittadino la conoscenza ed il controllo degli atti pubblici”.

In altre parole, il nostro ordinamento non solo vieta la censura, ma impone al giornalista di reagire a qualsiasi tentativo di ostacolare il suo rapporto con la collettività che fruisce dell’informazione. Ciò a maggior ragione quando l’ingerenza proviene da ambienti governativi, sui quali il controllo dell’opinione pubblica deve essere pieno e costante. La funzione primaria del giornalista è rendere possibile questo controllo. E quando si sottrae volontariamente a questo compito, tradisce la collettività, finendo per vanificare il principio della sovranità popolare, che è il caposaldo di ogni democrazia.