Il caso Annozero:
tecniche di fabbricazione
del giornalismo sovversivo

Bologna, 28 settembre 2009

(avv. Antonello Tomanelli)

I sistemi totalitari utilizzano sempre norme appositamente create per reprimere il mero dissenso. Nei Paesi dell’ex blocco sovietico si ricorreva al concetto di atto controrivoluzionario. Sulla base della stessa norma si puniva, ad esempio, chi senza giusto motivo non si recava a votare e chi veniva sorpreso a bisbigliare una critica al Partito. Fino a quella sventurata operaia albanese che distrattamente incartò il pesce fresco in una vecchia pagina di giornale che ritraeva il presidente Enver Hoxa.

La caratteristica principale di queste norme è la loro eccessiva genericità. Così, chi le applica ha il potere di farvi rientrare una miriade di comportamenti umani. L’accusa è necessariamente poco circostanziata e chi difende ha un compito estremamente arduo: quello di dimostrare che l’accusato non è un sovversivo. Qui la disparità tra accusa e difesa origina proprio dalla formulazione della norma.

L’estrema genericità delle accuse rivolte a Santoro all’indomani della prima puntata di “Annozero” hanno il sapore di una messa in stato di accusa tipica del regime totalitario. Nessuna analisi della trasmissione. Dagli ambienti governativi arriva un’accusa estremamente generica, soprattutto priva di dati fattuali: Santoro avrebbe violato “il principio di correttezza dell’informazione”, dando vita ad una trasmissione “di cattivo gusto”, incentrata sul “gossip”.

Se gli accusatori si limitassero alle parole, tutto rientrerebbe nella normalità. Ciascuno è libero di esercitare il diritto di critica. Ma se tali “argomentazioni” (si fa per dire) sono utilizzate per preannunciare l’adozione di provvedimenti limitativi dell’attività informativa di “Annozero”, allora siamo di fronte ad una profonda crisi del sistema democratico, originata dalla volontà di azzerare la libertà di informazione, impedendo ai giornalisti ogni approfondimento informativo che possa risultare “scomodo” al Potere costituito, e a suo insindacabile giudizio.

Santoro avrebbe violato il principio di correttezza dell’informazione. Sarebbe interessante capire in che termini. Un’accusa fumosa, alla quale riesce difficile replicare. A meno che per informazione corretta non si intenda quella innocua, quella che rinuncia a mettere a nudo le nefandezze del Potere. In questo senso, Santoro sarebbe un sovversivo, perché ha presentato ad un pubblico di 6 milioni di persone un presidente del Consiglio attratto più dalle prostitute che non dagli impegni istituzionali, e attenzionato dalla stampa di tutto il mondo che senza mezzi termini lo considera incapace di governare.

E il testimoniare che nei palazzi del Potere, in quelle stesse stanze dove spesso sono ospitati anche capi di Stato esteri, il presidente del Consiglio, insieme ad un losco individuo di nome Tarantini, organizzi festini con ragazze a pagamento diventa gossip. In effetti, l’unico modo per impedire l’approfondimento di fatti così imbarazzanti è far leva sul concetto di privacy. Ma si legga l'art. 6, comma 2°, del codice di deontologia dei giornalisti, che è parte integrante del Codice della Privacy. Legge alla mano, è chiaro che la privacy salverebbe il presidente del Consiglio solo se la diffusione di quei fatti non potesse minimamente incidere sul suo rapporto con la collettività. Cosa che, francamente, nessuna persona sana di mente o in buona fede si sentirebbe di sostenere.

Infine, vi è l’iniziativa del ministro Claudio Scajola, che ha la delega per le Comunicazioni, di convocare d’urgenza i vertici Rai per l’adozione di provvedimenti contro “Annozero”. Alla bisogna, cita l’art. 39 del contratto nazionale di servizio tra ministero delle Comunicazioni e Rai.

In realtà, né l’art. 39 né qualsiasi altra norma dell’ordinamento prevedono tale possibilità. L’unica cosa che il ministro potrebbe fare è scrivere alla Commissione Parlamentare di Vigilanza lamentando inadempimenti della Rai. Ma tali inadempimenti potrebbero riguardare soltanto una eventuale non corretta distribuzione dei programmi televisivi, che devono garantire la più ampia informazione: nella politica, nello sport, nello spettacolo, nella cultura, nella promozione dell’audiovisivo, nell’educazione dei minori, etc. (si veda in proposito l’art. 4). Mai il ministro potrebbe interferire sui contenuti di un programma di approfondimento informativo, che è prerogativa esclusiva del giornalista.

Il ministro Scajola non è un giurista, questo è certo. E probabilmente è stato mal consigliato. Ma l’iniziativa è il frutto di quella mentalità che vorrebbe l'informazione subordinata alla politica. Anche se, per la verità, finora non si era mai arrivati a questo: far leva su una norma dell’ordinamento (non importa se in maniera maldestra) ponendo in essere un atto formale di sottoposizione di un organo di informazione alla volontà di un organo del Potere Esecutivo. Si tratta di un formale atto di censura. Si badi bene: formale. Ciò significa che la censura, nell’ottica di questo Esecutivo, non va più mascherata, stante il divieto esplicito dell’art. 21 Cost., ma rivendicata.