Intercettazioni:
la multa agli editori
vìola il diritto comunitario

Bologna, 24 maggio 2010

(avv. Antonello Tomanelli)

Mentre in Gran Bretagna nessuno si scandalizza per il giornalista che registra di nascosto Sarah Ferguson mentre chiede ad un imprenditore mezzo milione di sterline come prezzo per incontrare il principe Andrea, in Italia c’è ancora qualcuno che fa leva sulla necessità di limitare le intercettazioni (e la loro pubblicazione) per tutelare la privacy. Mai nella storia un popolo è stato così preso in giro. Le intercettazioni servono per ricercare la prova dei reati. E il comportamento della Ferguson, sebbene riprovevole, non costituisce reato, non ricoprendo alcun pubblico ufficio.

Dell’attacco alla libertà di informazione che l’attuale maggioranza sta portando con l’ultimo disegno di legge sulle intercettazioni si è già parlato (si legga questo articolo). Qui va posta l’attenzione su un’assoluta novità: in caso di pubblicazione di un’intercettazione durante le indagini preliminari, è prevista una multa salatissima all’editore.

Finora le sanzioni erano previste per il direttore responsabile (oltre che, ovviamente, per l’autore dell’articolo) punibile in generale quando “omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati” (art. 57 del codice penale). Nella previsione di una sanzione diretta per l’editore molti vedono il tentativo di mettere in crisi un consolidato principio: quello dell’autonomia del lavoro redazionale dalla proprietà. Un principio ricavabile da due norme contenute nella Carta dei Doveri del giornalista. La prima: “La responsabilità del giornalista verso i cittadini prevale sempre nei confronti di qualsiasi altra. Il giornalista non può mai subordinarla ad interessi di altri e particolarmente a quelli dell’editore […]”. La seconda: “Il giornalista accetta indicazioni e direttive soltanto dalle gerarchie redazionali della sua testata”.

La ratio sottostante al principio di autonomia è la conseguenza del dovere del giornalista di informare la collettività. Con questa il giornalista ha un rapporto diretto. Normale, quindi, che le uniche “indicazioni e direttive” possano arrivargli solo da giornalisti a lui gerarchicamente sovraordinati (i direttori), anch’essi destinatari del dovere di informazione. Mai dall’editore.

Ora, in astratto, che la previsione di sanzioni dirette nei confronti degli editori possa far vacillare l’autonomia delle testate è un timore fondato, poiché in questo modo l’editore è legittimato all’esercizio di poteri di controllo e di intervento sul lavoro redazionale, avvicinando così la sua posizione a quella del direttore. Ma se si presta attenzione a quanto previsto in materia dal ddl intercettazioni, si capisce che il legislatore ha fatto le cose così male che non c’è molto da preoccuparsi. Vediamo perché.

Della multa agli editori si occupa l’art. 27 del ddl, che ha inserito la responsabilità dell’editore all’interno del D.Lgs. n. 231/2001. Questo D.Lgs. aveva introdotto l’istituto della responsabilità amministrativa degli enti, imposto a tutti i gli Stati della Ue dalla Convenzione per la Tutela degli Interessi Finanziari delle Comunità Europee del 1995. La Convenzione obbligava gli Stati membri a dotarsi di un impianto normativo secondo cui, quando viene commesso un reato da chi agisce per un ente (ad esempio una società, un’associazione, etc.) o comunque nel suo interesse, all’ente viene applicata una sanzione, prima di tutto pecuniaria.

La Convenzione, però, si preoccupava solo di alcune tipologie di reati: la truffa, la corruzione, il riciclaggio. Il legislatore italiano, invece, ha decisamente spaziato arrivando a prevedere, nel D.Lgs. n. 231/2001 e nelle sue successive integrazioni, la responsabilità amministrativa degli enti per i reati di terrorismo, pornografia minorile e le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili. Fino ad arrivare all’art. 27 dell'odierno ddl intercettazioni, che ha inserito nel D.Lgs n. 231/2001 l’art. 25 novies, prevedendo appunto una multa per l’ente editore, che può arrivare fino a 464 mila Euro, in caso di pubblicazione di intercettazioni.

Il legislatore ha quindi posto la diffusione di notizie, anche quando siano di indubbio interesse pubblico, sullo stesso piano dei reati sopra citati. Già questo fa sorgere grossi problemi di costituzionalità, in riferimento all’art. 3 Cost., che sancisce il principio di uguaglianza, poiché pone sullo stesso piano fattispecie incomparabili. Come si fa a trattare allo stesso modo l’editore che non controlla il giornalista che pubblica le intercettazioni sulla corruzione di un ministro, e l'ente che non si avvede che i propri dirigenti riciclano denaro sporco o fanno tratta di minori o aborti clandestini?

Non solo. A ben vedere, il ddl intercettazioni vanifica gli sforzi dell’Europa. La citata Convenzione Europea, infatti, aveva introdotto il principio della responsabilità amministrativa degli enti per stimolare il controllo dei vertici sullo sporco operato dei sottoposti allo scopo di impedire la commissione dei reati di truffa, corruzione, riciclaggio, etc. Ebbene, il ddl intercettazioni interviene, invece, sugli editori perché impediscano ai giornalisti di informare la collettività sulla commissione dei reati di truffa, corruzione, riciclaggio, etc. Un paradosso bello e buono!

Ce n’è abbastanza perché il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, se questo ddl dovesse completare il suo iter, lo rimandi alle Camere per manifesta incostituzionalità. Imporre un simile dovere di controllo agli editori, pena una maxi multa, è uno sberleffo all’Unione Europea. Costituzionalmente parlando è una violazione dell’art. 11 Cost., che logicamente impedisce all’Italia (e ad ogni stato membro della Ue) di dotarsi di un impianto normativo che contraddice quanto deciso a livello europeo.

E se malauguratamente tale ddl dovesse entrare in vigore, anche i giudici potrebbero porre un rimedio, poiché per giurisprudenza costante un giudice può disapplicare la norma nazionale contraria al diritto comunitario. Nel senso che la norma continuerebbe ad avere vigore nell’ordinamento (almeno fino all’intervento della Corte Costituzionale), ma il caso concreto sottoposto al giudice ordinario potrà essere definito come se quella norma non fosse mai esistita.