Ma come si permette?
Il sindaco di Adro
vilipende il capo dello Stato

Bologna, 26 gennaio 2012

(avv. Antonello Tomanelli)

Aveva ordinato la sospensione del servizio di mensa scolastica per i bambini di quelle 24 famiglie (quasi tutte extracomunitarie) che erano indietro con i pagamenti. Era andato su tutte le furie dopo che un imprenditore del luogo, Silvano Lancini, aveva pagato quei diecimila euro di arretrati. Ora scrive una lettera aperta al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dopo che questi ha conferito all’imprenditore l’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, istituito con la L. 3 marzo 1951 n. 178, per “ricompensare benemerenze acquisite verso la Nazione nel campo delle lettere, delle arti, dell’economia e nel disimpegno di pubbliche cariche e di attività svolte a fini sociali, filantropici ed umanitari” (art. 1 D.P.R. 31 ottobre 1952).

E’ Oscar Lancini (omonimo dell’imprenditore), sindaco di Adro, un comune del bresciano dove più della metà degli elettori vota Lega. Nella lettera, indirizzata a Giorgio Napolitano, si dice sdegnato per la concessione dell’onorificenza a chi l’aveva accusato, nemmeno troppo velatamente, di razzismo. Ma lo fa con toni che potrebbero costargli un procedimento penale per il reato di cui all’art. 278 del codice penale, che punisce con la reclusione da uno a cinque anni “Chiunque offende l’onore o il prestigio del presidente della Repubblica”.

La lettera incomincia osservando che “le onorificenze […] quando consegnate a cani e porci fanno ingiustamente divenire porci o cani anche quelli che veramente le hanno meritate”. Poi accusa l’imprenditore di aver compiuto quel gesto al solo fine di farsi pubblicità. Afferma che la concessione dell’onorificenza “offende tutti gli onesti cittadini”. Scrive testualmente, rivolgendosi direttamente al capo dello Stato: “presidente, ma come si permette?!”. Ritiene la concessione dell’onorificenza “un gesto sconsiderato”. Conclude lo scritto polemico con un improbabile “Distinti Saluti”.

Obiettivamente, si tratta di una critica moderata. Che se rivolta ad un qualsiasi personaggio pubblico, rientrerebbe certamente nel diritto di critica. Ma il destinatario della critica non è un soggetto che ricopre una qualsiasi carica pubblica. E’ il garante della Costituzione, l’organo super partes per antonomasia, la più alta carica istituzionale dello Stato. L’unico organo che “rappresenta l’unità nazionale”, come si esprime l’art. 87 della Costituzione. Per offendere l’onore o il prestigio del presidente della Repubblica basta molto meno di quanto occorra per diffamare un politico.

Si pensi a quel giornalista de “L’Unione Sarda” condannato per aver accusato l’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro di “responsabilità morale” nella morte di Aldo Moro e di “lanciare messaggi mafiosi”. Si pensi al giornalista di un periodico veneto, condannato per aver scritto della sentenza di morte chiesta e ottenuta dallo stesso Scalfaro in qualità di pubblico ministero della Corte D’Assise Speciale Antifascista di Novara per alcuni appartenenti alla Repubblica di Salò, definito dall’articolista “non un vero cattolico, ma un codino, un bigotto, di quella tradizione farisaica dei sepolcri imbiancati, quei farisei che Gesù bollò come ‘razza di vipere’”. E ancora, in tempi più recenti, a Francesco Storace, denunciato nel 2007 per aver definito proprio Giorgio Napolitano “indegno di una carica usurpata a maggioranza, senza titoli per distribuire patenti etiche per la disdicevole storia personale e per l’evidente faziosità”, dopo che il Capo dello Stato aveva bollato come “ignobile” il gesto dei giovani della “Destra” di spedire alla senatrice Rita Levi Montalcini un paio di stampelle per l’appoggio dato al governo Prodi (Storace fu salvato soltanto dal Senato, che negò l’autorizzazione a procedere). Tutte affermazioni che certamente sarebbero ritenute legittime se calate in un contesto di lotta politica.

A ben vedere, è la stessa formulazione letterale della norma penale che punisce l’offesa al capo dello Stato a restringere l’area del diritto di critica, se raffrontata con le altre norme penali che puniscono l’ingiuria e la diffamazione. Queste ultime tutelano valori come l’onore, il decoro, la reputazione. La norma che punisce l’offesa al capo dello Stato tutela il suo prestigio. E’ una distinzione che finisce per avere un peso determinante. Una critica potrà essere di per sé insufficiente a ledere il decoro o l’onore o la reputazione di una persona, ma averne abbastanza per lederne il prestigio. In altre parole, l’area di legittimità della critica si assottiglia nettamente quando è rivolta al capo dello Stato.

E, certamente, espressioni quali “presidente, come si permette?!”, “gesto sconsiderato”, “onorificenze consegnate a cani e porci”, onorificenza “che offende gli onesti cittadini” (espressione, quest’ultima, che logicamente riconduce al capo dello Stato il comportamento di premiare i disonesti), se possono rientrare nell’esercizio del diritto di critica quando indirizzate a politici, anche a prescindere dalla carica ricoperta, ledono senz’altro il prestigio di chi ricopre l’attuale più alta carica istituzionale dello Stato.