Tiziana Cantone:
il tragico epilogo
di una ragazza torturata

Bologna, 17 settembre 2016

(avv. Antonello Tomanelli)

La storia è ormai tristemente nota. Tiziana Cantone, trentenne napoletana, acconsente ad essere ripresa più volte dal suo fidanzato mentre è impegnata in performances sessuali con altri uomini. E’ lei stessa, ingenuamente, ad inviare quei video tramite whatsApp a poche persone che crede amici fidati. Qualcuno di questi incomincia a inoltrarli a non si sa bene chi. In breve le sue performances finiscono su diversi siti pornografici.

Se si trattasse solo di questo non sarebbe poi così drammatico. Non è infrequente che persone, soprattutto di sesso femminile, si ritrovino a loro insaputa su siti pornografici in pose o atteggiamenti di natura indiscutibilmente personale, per la gioia di un pubblico “di nicchia” che molto spesso, per evidenti motivi, nemmeno si palesa.

La gravità della fattispecie sta nel fatto che alcuni media campani hanno funto da cassa di risonanza di un fenomeno che fino ad allora era rimasto relegato in quella “nicchia”, incitando così migliaia di campani (e non solo) a cercare quel video, che altrimenti non avrebbero mai visto. La frase della ragazza che colora il video rivolta al fidanzato che la riprende (“Stai facendo un video? Bravooo”), oltre a provare il diretto coinvolgimento della ragazza nel suo confezionamento, diventa un tormentone che dura un intero anno e che trasforma pubblicamente la ragazza nella più proverbiale delle “zoccole”. Complici anche numerosi gruppi che sorgono spontaneamente come funghi su Facebook e che fanno a pezzi la poveretta.

Tiziana non esce più di casa, perché la riconoscerebbe chiunque. E chiunque si vergognerebbe di uscire con lei. Si trasferisce, chiede e ottiene di cambiare cognome. Ottiene dal giudice un provvedimento che impone a Google e Facebook la rimozione di ogni contenuto offensivo. Ma non è sufficiente. Le sue performances immortalate in quei maledetti video sono diventate, come si dice, virali. Ormai è una sorta di personaggio pubblico, con una dimensione tutt’altro che invidiabile. In preda alla disperazione, si uccide il pomeriggio del 13 settembre.

Per analizzare giuridicamente la fattispecie, incominciamo col dire che quei video contengono indiscutibilmente dati personali sensibili, che secondo la dicitura dell’art. 4, comma 1° lett. d) del Codice della Privacy, sono quei “dati personali idonei a rivelare […] la vita sessuale” di un individuo.

All’art. 23, comma 4°, il Codice è molto chiaro: ogni trattamento di dati sensibili deve essere espressamente e per iscritto autorizzato dall’interessato. E la più classica (nonché la più pericolosa) delle ipotesi di trattamento è la diffusione, che secondo l’art. 4, comma 1°, lett. m) del Codice è “il dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati”. Ossia proprio quello che ha fatto chi, dal proprio telefonino, tablet o pc, ha caricato in Rete i video che ritraggono l’ingenua Tiziana mentre fa sesso.

Per intendenderci, Tiziana, nel momento in cui ha inviato i file che la riguardavano a pochi fidati amici, ha posto in essere un’attività di comunicazione di dati sensibili (i propri dati sensibili). Comunicazione di dati sensibili che l’art. 4, comma 1° lett. l) del Codice definisce “il dare a conoscenza dei dati personali a uno o più soggetti determinati”. Ora, si aprono due scenari. O coloro che in origine hanno ricevuto quei file da Tiziana li hanno inoltrati tramite WhatsApp a numeri telefonici conosciuti, attuando così una (ulteriore) attività di comunicazione di dati sensibili, oppure hanno direttamente eseguito l’upload caricandoli in Rete, ponendo così in essere un’attività di diffusione di dati sensibili.

In ogni caso, si tratta di un’attività illecita, poiché sia la comunicazione che la diffusione di dati sensibili rientrano nel concetto di trattamento, per il quale, come abbiamo visto, l’art. 23 esigeva il consenso scritto di Tiziana. E l’art. 167 del Codice della Privacy punisce l’attività di comunicazione o di diffusione di dati personali, posta in essere in violazione dell’art. 23 (ossia la norma che esige il consenso dell’interessato), con la reclusione da 6 a 24 mesi, ma solo se l’attività illecita viene posta in essere dall’autore del reato “al fine di trarne per sé o per altri profitto o di recare ad altri un danno”.

E’ il cosiddetto “dolo specifico”, elemento costitutivo di molti reati, e di cui va fornita rigorosa prova per poter arrivare a una condanna. E, francamente, è difficile dimostrare che coloro i quali hanno inviato ad altri quei file, o che li hanno caricati in rete, lo abbiano fatto al preciso scopo di procurarsi un profitto (ad esempio una somma di denaro) o di danneggiare Tiziana. Sembra una sorta di sofisma ma non è così. Giuridicamente, caricare un video porno in rete coscienti di danneggiare il protagonista è un conto, caricarlo al preciso scopo di fargli del male è un altro.

Resta il reato di diffamazione, che richiede invece il dolo generico, ossia la semplice coscienza di ledere l’altrui reputazione. Qui la sussistenza del reato è incontestabile. E non dovrebbe essere difficile risalire a chi, in questo lungo gioco al massacro, rappresenta quello che potrebbe definirsi “delinquente zero”.

Qualche parola va spesa sulla decisione del tribunale al quale la povera Tiziana si era rivolta con procedura d’urgenza, laddove, a quanto pare, le ha negato il diritto all’oblìo con la seguente motivazione: “Presupposto fondamentale perché l’interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali, adducendo il diritto all’oblio, è che tali dati siano relativi a vicende risalenti nel tempo, e nel caso non si ritiene che sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività”.

Ora, qui il diritto all’oblìo, in realtà, c’entra come il cavolo a merenda. Il diritto all’oblìo è il diritto di un individuo, in passato oggetto di cronaca, a venire “dimenticato”, sul presupposto che l’interesse pubblico alla acquisizione della notizia sia nel frattempo scemato fino a scomparire. Ma presupposto fondamentale perché possa parlarsi correttamente di diritto all’oblìo è che il soggetto che vuole essere dimenticato sia stato in passato oggetto di una cronaca legittima. La diffusione dei dati sensibili di Tiziana è uno dei più eclatanti casi di trattamento illegittimo di dati sensibili, con conseguente impossibilità di configurare alcun interesse pubblico alla acquisizione di quei dati. Laddove non vi è interesse pubblico originario, non può parlarsi di diritto all’oblìo. Tutti quei dati avrebbero dovuto (e devono tuttora) essere cancellati all’istante.