Tribunale di Roma:
non è reato gridare
'giallorosso ebreo'

Bologna, 7 febbraio 2017

( avv. Antonello Tomanelli)

Da più parti si grida alla sentenza choc. Il Tribunale di Roma ha assolto due tifosi laziali che in occasione della partita Lazio Catania del 2003, valevole per il campionato di serie A, avevano ripetutamente intonato cori contenenti la locuzione “giallorosso ebreo”.

Secondo quanto può ricavarsi dalle testate giornalistiche che hanno rilanciato la notizia, il giudice avrebbe assolto i due laziali perché l’espressione verbale usata è da ritenersi “confinabile nell’ambito di una rivalità di tipo sportivo”. Una “mera derisione sportiva” che aveva sì intento denigratorio, ma comunque “non costituente alcun pericolo di diffusione di alcuna idea di odio razziale”.

Non si ha ancora a disposizione la motivazione della sentenza. Ma se i giornalisti hanno correttamente riportato i passi della sentenza, ci si trova di fronte ad una decisione alquanto strana, confusa e, sotto certi aspetti, davvero paradossale.

La normativa di riferimento è la c.d. Legge Mancino del 1993, attuativa della Convenzione internazionale di New York sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 7 marzo 1966. Tuttavia, bisogna prestare attenzione alla evoluzione di questa normativa.

La Legge 25 giugno 1993 n. 205 (“Legge Mancino”) originariamente all’art. 1, comma 1°, puniva “con la reclusione fino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

Nel 2006 il Governo Berlusconi approva la Legge 24 febbraio 2006 n. 85. In essa vi è (anche) una modifica della Legge Mancino. Oltre ad abbassare sensibilmente le pene per gli atti discriminatori, grazie a tale modifica non viene più punito chi quelle idee fondate sulla superiorità razziale le “diffonde in qualsiasi modo”, ma soltanto chi le “propaganda”.

Non è una differenza da poco. Tecnicamente l’area della propaganda è ben più ristretta di quella della diffusione. La propaganda implica necessariamente uno spiegamento, seppur minimo, di mezzi finalizzato non soltanto ad esprimere un pensiero, ma soprattutto a persuadere una moltitudine di persone, provocare la loro adesione alle idee veicolate. Chi in un pubblico dibattito afferma che gli arabi o i rom, anche se regolarmente soggiornanti, debbono essere mandati via perché culturalmente inferiori diffonde un pensiero. Chi afferma ciò in un volantino che distribuisce al pubblico, in un comizio elettorale o nello spazio che gli spetta all’interno di una tribuna politica, fa propaganda.

In altre parole, la legge del 2006 ha ricondotto sotto l’ombrello protettivo dell’art. 21 Cost. tutte quelle affermazioni razziste che non siano qualificabili come propaganda.

Ed è su questo argomento che, al limite, la sentenza che ha assolto i due tifosi laziali avrebbe dovuto far leva. Non certo sulla circostanza secondo cui “giallorosso ebreo” sarebbe un coro “non costituente alcun pericolo di diffusione di alcuna idea di odio razziale”. La confusione è evidente, perché la fattispecie penale non consiste più nella diffusione, ma nella propaganda. Concetti, come appena detto, ben diversi. Ma la cosa peggiore è che il giudice ha negato un fatto evidente. Nel momento in cui viene intonato un coro, vi è già una diffusione, poiché viene ascoltato da migliaia di persone presenti allo stadio.

In ogni caso, il reato sussiste in quanto la norma appena vista, nella sua seconda parte, punisce chi “commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. Non c’è dubbio, infatti, che nell’intonare davanti a migliaia di persone il coro “giallorosso ebreo” i due laziali hanno collocato l’ebreo in quanto tale in una posizione di palese inferiorità, essendo qui evidente il fine offensivo. E di ciò anche il giudice ne è certo, laddove afferma che quel coro va inquadrato in una “mera derisione sportiva”.

E’ una decisione inquietante. Sarebbe stato accettabile se il giudice avesse affermato, nuova legge alla mano, che quel coro non può farsi rientrare nel concetto di propaganda, data la nuova formulazione della norma. Appare, invece, una sorta di sdoganamento del razzismo affermare, come in sostanza ha fatto quel giudice, che gridare “giallorosso ebreo” non crea allarme sociale perché non costituisce una manifestazione razzista.