Bocciato dal Garante
lo scoop di Sky
sull'Imam di Viale Jenner

25 settembre 2007

(avv. Antonello Tomanelli)

La decisione, emessa dal Garante per la Protezione dei Dati Personali il 5 luglio 2007, verte sulla problematica del trattamento di dati personali per finalità giornalistiche.

I fatti che hanno dato origine al ricorso risultano essersi così svolti. Due giornalisti di Sky, una somala e un irakeno, chiedono e ottengono di conferire con Aboud Imad, l’Imam della chiacchierata moschea di viale Jenner a Milano, più volte al centro di indagini della magistratura. I due non nascondono la loro professione, ma si presentano come nubendi e, ricevuti negli uffici amministrativi della moschea, chiedono alla guida spirituale un consulto religioso sull’uso del velo. La conversazione viene interamente videoregistrata grazie ad una telecamera nascosta, all’insaputa dell’Imam.

Il video viene mandato in onda su Sky nel corso della trasmissione “Controcorrente” del 1° febbraio 2007, in una puntata che verte proprio sull’uso del velo da parte delle donne musulmane e che riporta le posizioni espresse a riguardo da vari soggetti appartenenti a diverse religioni. Le dichiarazioni dell’Imam sono piuttosto incaute. Considera “immorale” la società in cui viviamo, indirizza aspre critiche all’Occidente, auspica la creazione di partiti musulmani che impongano la sharia, raccomanda alla giornalista prossima alle nozze l’uso del niqab, il velo nero che lascia visibili solo gli occhi. E il contenuto dell’intervista finisce sul sito del “Corriere della Sera” in un articolo a firma Magdi Allam, notoriamente poco tenero nei riguardi di molti Imam.

La sostanza del problema è questa. Durante il colloquio con l’Imam i due giornalisti non nascondono la loro professione. Addirittura riportano su un taccuino le risposte dell’Imam circa la questione sottopostagli: l’opportunità che la donna, spacciatasi per nubenda, indossi il velo. In pratica, mentono all’Imam sulla finalità del colloquio. Non è un consulto religioso, ma uno stratagemma per indurlo a rilasciare dichiarazioni esplosive.

Ed è proprio questo che il Garante considera inaccettabile. Secondo il Garante, i due giornalisti avrebbero violato la normativa sul trattamento dei dati personali, con particolare riferimento alla loro raccolta, disciplinata dall’art. 2 del codice di deontologia. Essendo stati i dati personali raccolti in maniera illegittima, ne consegue anche l’illegittimità della loro diffusione.

Ma vediamo come la legge disciplina il trattamento dei dati personali effettuato dal giornalista. Come ampiamente spiegato in Il trattamento dei dati personali nell'attività giornalistica, la legge riserva al giornalista un trattamento privilegiato, in considerazione dell’interesse generale che la funzione informativa mira a soddisfare. Il giornalista che effettua il trattamento non ha l’obbligo di ottenere il consenso dell’interessato, anche quando il trattamento riguarda dati sensibili (art. 137, commi 1° e 2°, codice della privacy).

Tuttavia, al momento della raccolta del dato personale, il giornalista sarebbe comunque obbligato a rendere l’informativa di cui all’art. 13 del codice della privacy. Ma è un obbligo dal peso certamente trascurabile se raffrontato con quello che incombe sugli altri soggetti tipo responsabili del trattamento. Infatti, l’art. 2 del codice di deontologia impone al giornalista di rendere nota all’interessato soltanto “la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta”, dispensandolo dall’obbligo di fornire gli altri elementi descritti all’art. 13, obbligo invece operante per tutti i soggetti che effettuano un trattamento. Ma la stessa norma dispensa il giornalista dall’obbligo di rendere l’informativa quando “ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa”.

E’ evidente come quest’ultima disposizione svuoti il contenuto dell’obbligo dell’informativa. A parte il caso dei rischi per l’incolumità, è facile immaginare come spesso l’ostentazione della propria qualifica obbligherebbe il giornalista a rinunciare ad informare il pubblico, poiché l’interlocutore si guarderebbe bene dal fornirgli qualsiasi dato. L’omissione dell’informativa è qui prevista non tanto a tutela della professionalità del giornalista, quanto per consentire alla collettività la fruizione di informazioni che soltanto il giornalista è in grado di veicolare. Non a caso l’art. 1 del Codice di deontologia, proprio su spinta del legislatore e del Garante, ha sancito il principio secondo cui i trattamenti effettuati nell’esercizio dell’attività giornalistica “si differenziano nettamente per la loro natura dalla memorizzazione e dal trattamento di dati personali ad opera di banche dati o di altri soggetti”.

Sotto questo aspetto, il giornalista gode di una libertà di azione addirittura maggiore di quella riconosciuta agli enti pubblici, per definizione portatori di un interesse pubblico. Questi, infatti, possono trattare liberamente dati personali “soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali”, e solo su autorizzazione di una legge o di uno specifico provvedimento del Garante quando il trattamento riguarda dati sensibili o giudiziari. E l’informativa sul trattamento va dagli enti pubblici resa sempre e in forma integrale, senza alcuna possibilità di esenzione, come invece è previsto per i giornalisti.

Detto ciò, la decisione del Garante disconosce completamente il ruolo privilegiato attribuito dalla legge al giornalista. E’ evidente che se i due giornalisti avessero palesato all’Imam la vera finalità della visita, costui si sarebbe ben guardato, per ovvi motivi, dal rilasciare quelle dichiarazioni (di indubbio interesse pubblico, come ammette lo stesso Garante), rendendo così “impossibile l’esercizio della funzione informativa”, per dirla con l’art. 2 del codice di deontologia. A questo proposito, il Garante sostiene che quell’impossibilità “non si rinviene nel caso di specie”, senza però spiegare perché.

Tra l’altro, su questo punto il Garante fa affermazioni contraddittorie. Nega ai due giornalisti l’esenzione dall’obbligo di rendere l’informativa motivando la decisione “tenuto anche conto che i due collaboratori della resistente avrebbero comunque reso nota, sia pure in termini generici, la propria professione al ricorrente che li ha ammessi nel suo ufficio all’interno della Moschea e che ha continuato a fornire loro le proprie indicazioni […] pur se gli stessi continuavano ad annotarle su un taccuino”. Invece, è proprio questa circostanza che avrebbe dovuto indurre il Garante a considerare legittimo il comportamento dei due giornalisti. Se infatti l’art. 2 del codice di deontologia consente al giornalista di non qualificarsi e di non informare l’interessato della finalità della raccolta dei dati quando ciò renderebbe impossibile informare il pubblico, a maggior ragione il giornalista potrà nascondere all’interessato quella finalità una volta manifestata la sua qualifica. In altre parole, il comportamento dei due giornalisti avrebbe potuto essere ancora più “occulto”, ben potendo nascondere all’Imam anche la propria professione.

E nemmeno può dirsi, come sembra sostenere il Garante, che lo stratagemma ideato dai due giornalisti, compreso l’uso di una telecamera nascosta, rientra in quegli “artifici” che secondo l’art. 2 il giornalista deve in ogni caso evitare quando raccoglie dati personali. Il termine “artificio” non può essere inteso nel significato opposto al concetto di “trasparenza”. Se così fosse, molte notizie risulterebbero raccolte in violazione della legge sulla privacy. E, soprattutto, non potrebbe sfuggire la contraddizione cui darebbe vita la stessa norma, che al tempo stesso consente al giornalista di nascondere identità, professione e finalità della raccolta quando la loro manifestazione “renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa”. Il giornalista che con telecamera nascosta raccoglie dati personali (immagine, voce) di un soggetto mentre rende dichiarazioni compromettenti, evidentemente occulta la finalità della raccolta ricorrendo ad un comportamento tutt’altro che trasparente, ma indispensabile per l’esercizio della funzione informativa. Proprio come il giornalista che si camuffa da infermiere per trarre le immagini del degrado di un ospedale pubblico, perché fa proprio ciò che gli consente l’art. 2: non rende nota la propria identità.

Detto ciò, l’“artificio” la cui adozione rende illecita la raccolta di dati personali non può che essere quello che si pone come effetto di una condotta invasiva del giornalista nei riguardi della sfera privata di una persona. Il giornalista che si introduce in un’abitazione privata spacciandosi per idraulico o prete, adotta senz’altro un artificio invasivo della sfera privata se colloca una cimice che in sua assenza registra le conversazioni compromettenti di chi vi abita. Non, invece, se la conversazione viene registrata dal falso idraulico o prete mentre interloquisce con il soggetto interessato. In quest’ultimo caso non vi è un’aggressione alla sfera privata, ma solo l’occultamento, da parte del giornalista, della propria identità, della propria professione e della finalità della raccolta dei dati personali: comportamento espressamente consentito dall’art. 2 del codice di deontologia in assenza di una condotta alternativa in grado di garantire l’apprensione della notizia.

Ed è proprio ciò che è accaduto nel caso in commento. Le dichiarazioni esplosive dell’Imam della moschea di Milano si inseriscono in un contesto non riconducibile al concetto di “sfera privata”, se si considera che l’Imam ha consentito ai due giornalisti l’ingresso negli uffici della moschea rendendosi disponibile ad un colloquio tra presenti. Diverso sarebbe stato se durante il colloquio i due giornalisti avessero con destrezza prelevato da un cassetto il diario dell’Imam per poi diffonderne il contenuto. Qui il furto, che è atto di aggressione alla sfera privata per antonomasia, avrebbe rappresentato quell’“artificio” che l’art. 2 del codice di deontologia vieta nel momento della raccolta di un dato personale.