Per il Tribunale di Milano
Il Giornale non diffamò
Caselli e Lo Forte

7 gennaio 2008

(avv. Antonello Tomanelli)

Assolti l’ex direttore de “Il Giornale” Maurizio Belpietro e il senatore Lino Jannuzzi dall’accusa di diffamazione aggravata ai danni dei magistrati Caselli e Lo Forte. La querela era scaturita da un articolo a firma Jannuzzi intitolato “Mafia, 13 anni di scontri tra pm e carabinieri” e apparso a pag. 15 del quotidiano milanese del 7 novembre 2004.

L’articolo ricostruisce i controversi rapporti tra i magistrati della Procura di Palermo e i Carabinieri del Ros a partire da quando, nel 1991, Giovanni Falcone lascia la Procura per insediarsi alla direzione degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia. Focalizza l’attenzione su tre episodi: il dossier “Mafia e appalti” redatto sotto Falcone dai Carabinieri del Ros e misteriosamente finito nelle mani di Cosa Nostra; il suicidio del maresciallo Lombardi, inizialmente incaricato di prelevare Badalamenti, detenuto negli Usa, per farlo deporre al processo Andreotti, in gran parte basato sulle dichiarazioni di Buscetta; la mancata perquisizione del covo di Totò Riina dopo il suo arresto.

Per la terza sezione penale del Tribunale di Milano, nella persona del giudice dott.ssa Sofia Fioretta, “la facoltà di ricostruire polemicamente i fatti […] costituisce esercizio del diritto di critica se tutti i fatti storici descritti nell’articolo corrispondono a verità”. Dunque per il giudice l’articolo incriminato è espressione dell’art. 21 Cost., perché i fatti, potenzialmente diffamatori, narrati e addebitati a Caselli e Lo Forte sono veri.

Tuttavia, non è proprio così. Almeno, non per entrambi i querelanti. Per quanto riguarda Lo Forte, l’articolo dice che fu accusato da Angelo Siino (quello che poi diverrà “il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra”) di essere il suo informatore, tanto da finire indagato dalla Procura di Caltanissetta per abuso d’ufficio e corruzione in atti giudiziari insieme ad altri tre colleghi. Ma dice anche che successivamente Siino ritrattò le accuse affermando di essere stato costretto dai Carabinieri a fare il nome di Lo Forte come suo informatore. E la Procura di Caltanissetta archivia. Anche se il tono adoperato dall’articolista fa subito pensare ad una “misteriosa” ritrattazione e ad una conseguente “forzata” archiviazione, siamo nei limiti dell’art. 21 Cost., poiché la continenza formale richiesta nella critica non è certo quella che si esige nella cronaca. L’importante è che i fatti su cui la critica si basa siano sostanzialmente veri. Ed è proprio quello che accade nella critica a Lo Forte.

Diverse conclusioni debbono invece trarsi per Caselli. Sulla questione della mancata perquisizione del covo di Riina, l’articolo di Jannuzzi è perentorio nel dire che quella fu “una scelta strategica tesa a catturare anche gli altri”, e “fu decisa e approvata da tutti i magistrati della procura, a cominciare dal procuratore Caselli”. Ma le cose non stanno così. Qui Jannuzzi omette circostanze tutt’altro che marginali.

Riina viene arrestato il 15 gennaio 1993, per strada, a poca distanza dal covo di via Bernini. Caselli, che proprio quel giorno assume le funzioni di capo della procura di Palermo, dà per scontato di procedere immediatamente alla perquisizione del covo, che da diversi giorni è sotto stretta sorveglianza. Ma alla decisione si oppongono il colonnello Mori, capo del Ros, e il capitano De Caprio (il “mitico Ultimo”). Questi ritengono che la perquisizione allarmerebbe Cosa Nostra, impedendo di catturare mafiosi ignari del fatto che il covo è sotto controllo, pregiudicando così lo sviluppo delle indagini. E insistono per rimandare, tenendo comunque sotto stretto controllo l’edificio. Alla fine Caselli, che si fida ciecamente di Mori, acconsente.

In realtà, la sorveglianza dell’edificio cessa già poche ore dopo l’arresto di Riina. La perquisizione del covo viene fatta dagli uomini del Ros soltanto il 4 febbraio 1993, ossia diciannove giorni dopo il suo arresto. In questo arco di tempo, gli uomini di Cosa Nostra svuotano il covo di ogni cosa, ritinteggiano le pareti e addirittura lo ristrutturano in alcune sue parti. Sicuramente portano via documenti importantissimi. Nessuna speranza di sapere dove, visto che il servizio di videosorveglianza è stato abolito dal Ros, all’insaputa dei magistrati, il giorno stesso dell’arresto di Riina.

Mori e De Caprio vengono processati per favoreggiamento aggravato (a Cosa Nostra). Ma sono assolti il 20 febbraio 2006 dal tribunale di Palermo, sostanzialmente per insufficienza di prove. Tuttavia, il tribunale ricostruisce i fatti come sopra riportati.

Ora, di fronte ai fatti accertati, l’apodittica e polemica frase riportata dall’articolo a firma Jannuzzi laddove parla di “scelta strategica tesa a catturare anche gli altri […] decisa e approvata da tutti i magistrati della procura, a cominciare dal procuratore Caselli”, imputa direttamente e primariamente a Caselli una decisione a dir poco infelice e dalle disastrose conseguenze investigative, emarginando invece dal processo decisionale il colonnello Mori e il capitano De Caprio, ossia proprio coloro che si incaponirono nel rimandare la perquisizione. E che ottennero l’assenso formale di Caselli soltanto dopo aver garantito che il covo sarebbe stato sorvegliato senza soluzioni di continuità. Cosa che, invece, non avvenne già dal giorno stesso dell’arresto di Riina, in forza di una decisione unilaterale del Ros nascosta per quindici giorni allo stesso Caselli.

E’ chiaro che l’articolo non rispetta il requisito della verità, anche in quella più tenue forma che esige il diritto di critica rispetto al diritto di cronaca, poiché vi è l’omissione di fatti troppo rilevanti. E nemmeno può valere come giustificazione il fatto che all’epoca della pubblicazione dell’articolo (7 novembre 2004) “Il Giornale” non poteva conoscere quella verità emersa soltanto con la sentenza del Tribunale di Palermo del 20 febbraio 2006. In realtà, quegli stessi fatti erano stati resi noti il 2 novembre 2004, ossia pochi giorni prima della pubblicazione dell’articolo, quando il Gip di Palermo Vincenzina Massa, nel formulare la c.d. “imputazione coatta” e determinando sostanzialmente il rinvio a giudizio di Mori e De Caprio per favoreggiamento alla Mafia, scriveva che “fu soprattutto la sospensione di ogni attività di osservazione a determinare un’obiettiva agevolazione di Cosa Nostra, consentendo a quest’ultima di trarre il massimo vantaggio possibile dalla mancata perquisizione del covo, visto che solo la prosecuzione dell’attività di osservazione, in coerenza con la scelta di arrestare Riina lontano da via Bernini, avrebbe potuto attenuare l’altissimo rischio affrontato col rinvio della perquisizione, di compromettere l’acquisizione di documenti di sicuro rilievo eventualmente rinvenibili nella villa”. E alla decisione del Gip fu dato ampio risalto dagli stessi organi di informazione.

Tra l’altro, qui va sottolineato un aspetto. Se è vero che la critica non deve necessariamente basarsi su precisi dati fattuali, distinguendosi dalla cronaca proprio per essere una valutazione, non altrettanto può dirsi quando la critica si innesta in una dettagliata ricostruzione di fatti, che inevitabilmente fà sì che sull’aspetto valutativo prevalga quello informativo. Ed è proprio il caso dell’articolo di Jannuzzi, dove l’aspetto valutativo è marginale. In un simile contesto, il requisito della verità va valutato in maniera rigida. Si deve cioè guardare più al diritto di cronaca che al diritto di critica, almeno per quel che riguarda il requisito della verità. Proprio perché qui l’articolista vuole informare, prima ancora che valutare.

E se si guarda al diritto di cronaca, le omissioni cui è incorso l’articolo di Jannuzzi sono rilevanti. Un conto è scrivere che la colpa è anche di Caselli, perché magari è stato ingenuo a farsi convincere dai Carabinieri a rimandare la perquisizione del covo di Riina. Diverso è scrivere, come ha fatto Jannuzzi, di scelta “decisa e approvata da tutti i magistrati della procura, a cominciare dal procuratore Caselli”.

Sotto questo aspetto, quando il giudice milanese dice che “la facoltà di ricostruire polemicamente i fatti […] costituisce esercizio del diritto di critica se tutti i fatti storici descritti nell’articolo corrispondono a verità” dice una cosa ovviamente giusta, ma prende la decisione sbagliata perché i fatti così come ricostruiti dall’articolo di Jannuzzi, almeno nella parte che riguarda Caselli e la mancata perquisizione, non sono affatto veri. Un conto è commentare alcuni fatti dopo aver citato anche gli altri, come accade con i riferimenti alle accuse a Lo Forte, dove l’ironia che Jannuzzi utilizza non lo allontana dalla tutela dell’art. 21 Cost., dato che nella critica il requisito della continenza formale va comunque valutato con molto minor rigore rispetto alla cronaca. Diverso, invece, è nascondere fatti rilevanti consegnando al lettore una realtà diversa, nella pretesa di informare.

Infine, della sentenza va sottolineato un aspetto che la rende singolare. Il giudice, riferendosi ai fatti che hanno occasionato l’articolo di Jannuzzi, parla di un “qualcosa di peggio di una guerra tra Carabinieri e Magistratura”; di un “enorme e subdolo potere dei collaboratori di giustizia”; di Riina come di colui che “non sarebbe stato mai preso […] se si fosse fatto come voleva la procura e non come voleva ‘Ultimo’” (“Ultimo” è il soprannome dato al capitano De Nardo dai suoi colleghi, coimputato a Palermo insieme a Mori).

Qui il fatto singolare è che il giudice non si limita a verificare se secondo il Diritto la pubblicazione è legittima perché obiettivamente rientra nel diritto di critica. Va ben oltre. Dice che la critica di Jannuzzi è giusta. In altre parole, sposa la posizione del quotidiano espressa attraverso l’articolo di Jannuzzi. Su questo punto, è condivisibile quanto affermato da Stefano Cionini su autonomia e solidarietà, secondo cui la sentenza “sdogana con il sugello dello Stato una lettura dei fatti concernenti le vicende storiche descritte nella pubblicazione di Jannuzzi”; e, altresì, “più che affermare l’innocenza dei due giornalisti assume le vesti di giudizio e monito sull’operato di altri magistrati che in quegli anni di sangue cercavano di ripristinare lo stato di diritto”.