Show di Giuliano Ferrara
al Tribunale di Parigi:
problemi deontologici

12 gennaio 2008

(avv. Antonello Tomanelli)

Grazie ad un articolo di Marco Travaglio pubblicato su “L’Unità” dell’8 gennaio, subito ripreso dal sito autonomia e solidarietà, arriva dalla Francia la notizia della condanna del giornalista Giuliano Ferrara a pagare a titolo di risarcimento danni, ammenda, spese legali e accessorie la complessiva somma di Euro 34.000. Sono per una causa persa contro il quotidiano francese “Le Monde” e il noto scrittore Antonio Tabucchi, per violazione delle leggi francesi sul diritto d’autore.

Questi i fatti. Nell’ottobre 2003 Antonio Tabucchi spedisce via mail alla redazione di “Le Monde” un pezzo in francese. E’ una critica a Giuliano Ferrara, noto negli ambienti giornalistici francesi soprattutto per la sua fedeltà a Silvio Berlusconi. L’articolo fa un ritratto del giornalista, citando i suoi trascorsi al soldo della Cia, più volte rivendicati dallo stesso Ferrara. Ribatte alle dichiarazioni riportate alcuni giorni prima su “Il Foglio”, che indicavano in Antonio Tabucchi e Furio Colombo, allora direttore de “L’Unità”, “i mandanti linguistici” del suo assassinio. Tabucchi considera tali dichiarazioni una sorta di “Fatwa all’incontrario”. Di qui il titolo originale dell’articolo (“Fatwa à l’italienne”) progettato per uscire su “Le Monde” il 10 ottobre.

Ma un redattore di “Le Monde”, probabilmente per mero spirito di colleganza, gira la mail a Giuliano Ferrara. Così, l’articolo di Tabucchi, anziché uscire su “Le Monde” del 10 ottobre, esce su “Il Foglio” del 9 ottobre. Ferrara, che riporta la firma di Antonio Tabucchi indicando se stesso come traduttore, modifica il titolo originale in “Antonio Tabucchi sostiene che l’Elefantino vuole ammazzarlo”. Addirittura introduce il testo avvertendo che “Il Foglio è in grado di offrire ai suoi lettori il testo dell’articolo in corso di stampa questa mattina”. Staccato dal pezzo di Tabucchi segue un lungo articolo intitolato “Breve analisi di un testo demenziale e linguisticamente assassino”, in cui Ferrara risponde allo scrittore.

Qui sorgono questioni di deontologia professionale. Giuliano Ferrara si è appropriato di un prodotto intellettuale di “Le Monde”, che lo aveva acquisito in forza di specifici accordi intercorsi con Tabucchi. Necessitava del consenso preventivo sia di “Le Monde” che di Tabucchi per pubblicare il pezzo su “Il Foglio”. Al di là della violazione delle norme civilistiche, certamente il comportamento di Ferrara è in violazione di quei “doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede” citati in premessa nella Carta dei doveri e che devono accompagnare il giornalista nell’espletamento del proprio lavoro anche nei rapporti con i colleghi.

Tuttavia, quello che qui merita un approfondimento sono le dichiarazioni rese dal giornalista al Tribunal de Grande Instance di Parigi per giustificare il proprio comportamento. In primo luogo, chiestogli se rispondesse a verità la notizia dei suoi trascorsi al soldo della Cia (proprio per verificare se Tabucchi si fosse mosso nell’ambito della critica legittima), Ferrara ha risposto che quei fatti non erano veri, ma che erano stati da lui stesso inventati “per provocazione”. In pratica, Ferrara ha candidamente ammesso di aver mentito quando pubblicamente rivendicava di aver preso soldi dalla Cia.

Una tale ammissione non è sufficiente a configurare una passata reiterata violazione, da parte di Ferrara, del dovere di verità. Appare sì singolare che un giornalista, la cui funzione è scovare le fonti da cui trarre la verità, si sforzi invece di concepire una notizia identificandosi con la fonte. Ma la rappresentazione che un famoso giornalista fornisce di sé non ha a che vedere con il diritto di cronaca, così come non è concepibile un diritto di critica nei confronti di se stessi. In altre parole, le falsità di Giuliano Ferrara circa i propri trascorsi al soldo della Cia sono innocue, perché non attengono all’Informazione.

Semmai, quelle falsità possono contribuire a compromettere “il rapporto di fiducia tra gli organi di informazione e i cittadini” che la stessa Carta dei doveri indica come “la base del lavoro di ogni giornalista”. Chi mente su se stesso può mentire sugli altri, quindi sulle notizie. Inoltre, in quelle affermazioni vi è l’intento di valorizzare un costume che la stessa Carta dei Doveri considera come il fumo negli occhi, dal momento che vieta al giornalista di subordinarsi “ad interessi di altri e particolarmente a quelli dell’editore, del Governo o di altri organismi dello Stato”. Dove per “Stato” deve intendersi, per forza di cose, anche lo Stato estero.

Curiosa poi la difesa di Giuliano Ferrara consistente nel raccontare ai giudici parigini che “in Italia è usanza giornalistica pubblicare documenti senza autorizzazione per rispondere a essi senza che la cosa comporti una contraffazione”. Dove sia questa “usanza”, francamente, nessuno lo sa. Inoltre, qui Giuliano Ferrara ha maldestramente cercato di ricondurre il proprio comportamento al diritto di replica.

Effettivamente il diritto di replica è garantito dalla Carta dei doveri: “Il giornalista non deve dare notizia di accuse che possono danneggiare la reputazione e la dignità di una persona senza garantire opportunità di replica all’accusato”. Ma è la logica a disegnare i suoi contorni. Il diritto di replica implica necessariamente l’esistenza di due distinti soggetti: da una parte il divulgatore della prima notizia, dall’altra colui che dalla pubblicazione della prima si sente leso, ossia l'accusato, tanto da voler rispondere.

Ma in questo caso i due soggetti coincidono. Ferrara ha – per così dire – anticipato su “Il Foglio” la pubblicazione dell’articolo di Tabucchi su “Le Monde”, in tal modo appropriandosene e diventandone di fatto il divulgatore; e, nel contempo, inserito il proprio articolo di risposta. Con quest’ultimo ha replicato ad una critica, ma da lui stesso divulgata. E’ ontologicamente impossibile, quindi, parlare di diritto di replica, proprio perché qui Ferrara impersona divulgatore e accusato.

In definitiva, Giuliano Ferrara ha, davanti ai giudici francesi, ammesso di aver mentito per anni circa i suoi rapporti con la Cia, e tentato di far loro credere che in Italia è normale rubare gli articoli altrui per difendersi dalle accuse in essi contenute. Che il Tribunal de Grande Instance di Parigi non abbia creduto ai suoi goffi tentativi di far passare la sua azione per un costume italiano, lo si deduce da quel passo della sentenza dove si legge che tale “eventuale usanza italiana, ammesso che esista, non si applicherebbe comunque al diritto francese”. E’ ciò rincuora.

Ma non si può negare che Giuliano Ferrara “con la sua condotta abbia compromesso la dignità professionale”, realizzando cioè quel risultato che gli artt. 54 e 55 L. n. 69/1963 pongono a base delle più gravi sanzioni disciplinari, ossia la sospensione e la radiazione. Che poi la dignità della categoria sia stata compromessa “gravemente”, tanto da meritare la sanzione della radiazione di cui all’art. 55, può dipendere da vari fattori. Qui basti rilevare che il caso di Giuliano Ferrara è stato ripreso dagli organi di informazione di tutto il mondo, rafforzando inevitabilmente l’idea dell’Italia quale modello giornalistico da non seguire.