Enzo Biagi è morto
e Berlusconi lo diffama:
la parola ai congiunti

17 febbraio 2008

(avv. Antonello Tomanelli)

Silvio Berlusconi incomincia la campagna elettorale nel peggiore dei modi, commettendo il reato di diffamazione aggravata ai danni di un defunto. Il defunto è Enzo Biagi, il più popolare e amato dei giornalisti, morto nel novembre 2007 tra i postumi di una brutta ferita infertagli dalla Rai, che nel settembre 2002 lo aveva cacciato dopo 41 anni di onorato servizio, in ottemperanza al cosiddetto editto bulgaro dello stesso Berlusconi, allora presidente del Consiglio.

Il 18 aprile 2002 Silvio Berlusconi, durante una conferenza stampa a Sofia, riferendosi esplicitamente a Biagi Santoro e Luttazzi, parla di “uso criminoso” della televisione pubblica e di “preciso dovere della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga”. Nei mesi successivi viene soppresso Il Fatto di Enzo Biagi e la Rai lo licenzia con una raccomandata spedita da Agostino Saccà, allora direttore generale (sul caso si veda la censura ad Enzo Biagi).

Invece, intervistato da Gianni Riotta venerdi sera a Tv7, Silvio Berlusconi nega l’esistenza dell’editto bulgaro. Anzi, sostiene di essersi “battuto perché Biagi non lasciasse la televisione, ma alla fine prevalse in Biagi il desiderio di poter essere liquidato con un compenso molto elevato”.

Al di là degli inevitabili giudizi etici che una simile dichiarazione suscita, essa va analizzata nelle sue conseguenze giuridiche. E’ senza dubbio una dichiarazione lesiva della reputazione di Biagi, che qui viene additato da Berlusconi non come un professionista che ha lottato fino all’ultimo per preservare la propria dignità, ma come un uomo volgarmente venale che addirittura rifiuta di rimanere in Rai preferendo una sostanziosa liquidazione. L’art. 597, comma 3°, del codice penale dà ai prossimi congiunti di Biagi la facoltà di proporre querela per “offesa alla memoria di un defunto”. Ed è difficile far rientrare la dichiarazione di Berlusconi nel diritto di critica, avendo rappresentato i fatti in maniera diametralmente opposta alla realtà.

E nemmeno sembra possibile ricondurre la dichiarazione di Berlusconi sotto l’ombrello protettivo dell’art. 68, comma 1°, Cost. La norma stabilisce che “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. E’ quella insindacabilità spesso invocata dai parlamentari che diffamano e che pretendono sia applicata sempre e comunque, in ragione del proprio status, anche quando la dichiarazione diffamatoria non parte dai banchi del Parlamento. E la Corte Costituzionale in proposito ha chiarito che sebbene l’insindacabilità possa riguardare anche dichiarazioni rese al di fuori del Parlamento, è necessario che esse siano strettamente collegate ad una trascorsa attività parlamentare (già esercitata attraverso, ad esempio, mozioni, interpellanze, interrogazioni, discussioni, etc.), in modo che si possa riscontrare una "identità sostanziale di contenuto fra l’opinione espressa in sede parlamentare e quella manifestata nella sede esterna”. Insomma, un vero e proprio nesso che trasformi la dichiarazione diffamatoria nella reiterazione di una funzione già concretamente esercitata in Parlamento.

Ebbene, non pare che Berlusconi abbia mai ufficialmente trattato in Parlamento la questione Biagi, soprattutto con riferimento a quel “compenso molto elevato” che – a suo dire – avrebbe convinto Biagi ad abbandonare la Rai e che attribuisce valenza diffamatoria alla esternazione. Non potendo ricondursi quella frase a funzioni parlamentari precedentemente espletate, Berlusconi può essere chiamato a rispondere per quella frase, nell’eventualità in cui i familiari di Biagi decidessero di agire con una querela o con una citazione in sede civile.

Ma uno strumento di cui i familiari di Biagi dispongono per ottenere una prima celere soddisfazione è quello della rettifica. L’art. 32 D.Lgs. n. 177/2005 (“Testo Unico della Radiotelevisione”) stabilisce che “chiunque si ritenga leso nei suoi interessi morali o materiali da trasmissioni contrarie a verità ha diritto di chiedere all’emittente […] che sia trasmessa apposita rettifica”, da effettuare “entro quarantotto ore dalla data di ricezione della relativa richiesta, in fascia oraria e con il rilievo corrispondenti a quelli della trasmissione che ha dato origine alla lesione degli interessi”. A rigor di logica la rettifica, se richiesta dai familiari di Biagi, andrebbe effettuata proprio all’interno di Tv7 e per bocca dello stesso direttore Riotta, che conduce quella trasmissione.

E a proposito di Gianni Riotta, non si può dire che il suo comportamento, di fronte alle esternazioni di Berlusconi, sia stato deontologicamente impeccabile. Dal momento che il direttore conosceva senz’altro i fatti, avrebbe dovuto procedere ad una immediata rettifica, in ossequio al dovere di verità che anima la condotta di ogni giornalista.

Tv7 va infatti qualificato come programma di approfondimento informativo, ossia quella tipologia di trasmissioni in cui il contraddittorio ben può sorgere tra politico e giornalista, dovendo quest’ultimo unicamente contribuire all’accertamento della verità. Invece, Riotta, rinunciando a qualsiasi contestazione, l’ha gestito come programma di comunicazione politica, dove il giornalista deve limitarsi a relazionare il politico al telespettatore (sulla questione si vedano le varie sottocategorie di la par condicio).

Del resto, le questioni deontologiche erano sorte fin dalla morte di Enzo Biagi, quando la maggioranza dei servizi confezionati dai Tg occultò i fatti, senza nemmeno citare l’editto bulgaro e addirittura imputando la fine del rapporto tra la Rai ed Enzo Biagi ad una precisa iniziativa del giornalista (sulla questione si veda L’addio a Enzo Biagi tra commemorazioni e illeciti deontologici).