Berlusconi diffama Di Pietro
e sfiora l'apologia
del delitto di mafia

11 aprile 2008

(avv. Antonello Tomanelli)

Aveva incominciato la propria campagna elettorale nel peggiore dei modi diffamando un morto, Enzo Biagi. Ora la conclude diffamando un avversario politico ed elogiando un mafioso. Silvio Berlusconi accusa Antonio Di Pietro di non possedere una laurea valida e di aver vinto il concorso in magistratura esibendo certificati falsi. E definisce eroe Vittorio Mangano, lo “stalliere di Arcore” che lavorò per due anni nella villa del Cavaliere, un uomo dal curriculum giudiziario imbarazzante, morto nel 2000 mentre scontava una condanna all’ergastolo per omicidio, traffico internazionale di stupefacenti ed estorsione, definito da Borsellino “testa di ponte dell’organizzazione mafiosa nel nord Italia”.

Sulle accuse a Di Pietro c’è poco da dire. Non c’è dubbio che si tratta di affermazioni volgari e diffamatorie. E’ vero che su una questione del genere sussisterebbe l’interesse pubblico. E’ vero che Berlusconi si è mantenuto nei limiti della continenza formale (requisito che nella critica va sempre valutato con minor rigore), avendo certamente argomentato le proprie accuse. E’ anche vero, però, che quelle affermazioni, riguardando fatti specifici, potrebbero rientrare nel diritto di critica soltanto se rispettassero il requisito della verità. Ma dovrà essere Berlusconi a fornire la relativa prova, in un eventuale giudizio. Cosa che, francamente, sembra piuttosto improbabile.

Senza dubbio più interessante la questione su Mangano. A “Omnibus” di La7 del 9 aprile, Berlusconi definisce “eroico” il comportamento di Mangano, perché durante la detenzione in carcere “non inventò mai nessuna accusa” contro di lui “nonostante la sua grave malattia”. Al di là degli inevitabili giudizi etici che suscita la sostanziale equiparazione di un mafioso ad un eroe, qui Berlusconi è andato maledettamente vicino a commettere il reato di cui all’art. 414, comma 3°, del codice penale, che punisce “chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti”.

In effetti, è una sola la circostanza che impedisce l’incriminazione di Berlusconi per quel reato. L’apologia, per essere punibile, deve riferirsi specificamente ad un fatto che di per sé costituisce reato, e che nell’affermazione incriminata viene esaltato. Ma qui il fatto esaltato, stando al linguaggio usato da Berlusconi, è unicamente il non essersi Mangano “inventato” il nome del Cavaliere come di personaggio colluso con la mafia. Fatto che di per sé (il "non inventarsi") per ovvi motivi non può costituire reato.

Nemmeno può dirsi che con quelle affermazioni Berlusconi abbia esaltato la mafiosità di Mangano, quindi il reato di associazione di tipo mafioso (art. 416 bis del codice penale). La qualifica di “eroe” che Berlusconi conferisce a Mangano riguarda, almeno formalmente, il non averlo accusato di mafiosità, non i trascorsi mafiosi dello “stalliere di Arcore”.

Ma nelle affermazioni di Berlusconi è presente il secondo requisito che la giurisprudenza richiede per la sussistenza del reato di apologia: la possibilità che le affermazioni esercitino una forma di suggestione che possa stimolare la commissione di reati simili a quello oggetto di esaltazione. Non c’è dubbio, infatti, che qualificare pubblicamente “eroe” un uomo riconosciuto come mafioso suoni per molti come stimolo a partecipare ad associazioni di tipo mafioso. Sotto questo aspetto, assume grande importanza quanto detto dalla Corte di Cassazione: “un pericolo concreto per la sicurezza pubblica sussiste in misura maggiore quando il discorso apologetico incide su specifiche situazioni o su ambienti non refrattari a recepire l’impulso istigatorio” (Cass. n. 11578/1997).

E se si pensa che quelle affermazioni provengono dal leader del maggior partito rappresentato in Parlamento e proprietario di tre reti televisive a diffusione nazionale, e che quelle affermazioni sono state fatte a poche ore dalle elezioni, si capisce come qui l’impulso istigatorio di cui parla la Suprema Corte ponga seri problemi di ordine pubblico, soprattutto con riferimento ai più giovani. Tecnicamente le affermazioni di Berlusconi costituiscono una sorta di apologia subliminale del delitto di associazione di tipo mafioso. Non sono punibili solo perché il vincolo mafioso non viene da Berlusconi esaltato espressamente. Ma certamente vanno accolte con grande sforzo e raro imbarazzo sotto l’ombrello protettivo dell’art. 21 Cost.