IL DIRITTO ALL'OBLIO

Presupposto perché un fatto privato possa divenire legittimamente oggetto di cronaca è l’interesse pubblico alla notizia. La collettività va informata con tempestività, in modo da poter conoscere l’accaduto in tempo reale; e con completezza, così da fornirle una chiara visione del fatto. Se viene scoperto un giro di corruzione, è possibile che la notizia debba essere data a più riprese, secondo gli sviluppi graduali della vicenda. Il pubblico dovrà conoscere i soggetti coinvolti nella vicenda, la loro posizione istituzionale, in cosa consistevano i “favori” eseguiti in cambio di denaro, le conseguenze del giro di corruzione sul funzionamento dell’istituzione interessata e sulla pelle dei cittadini onesti, etc. Poi, potranno seguire dibattiti sulla vicenda. Insomma, la diffusione della notizia dovrà necessariamente perdurare nel tempo.

Ma una volta che del fatto il pubblico sia stato informato con completezza, cessa l’interesse pubblico in quanto la collettività ha ormai acquisito il fatto. Non vi è più una notizia. Riproporre l’accadimento sarebbe inutile, poiché non vi sarebbe più un reale interesse della collettività da soddisfare.

Non solo inutile per la collettività, ma anche dannoso per i protagonisti in negativo della vicenda. Qui la reputazione dei soggetti subirebbe una ulteriore lesione. E se la lesione è inizialmente giustificata dall’esigenza di informare il pubblico su fatti nuovi, non lo è più dopo che la notizia risulta ampiamente acquisita. A partire dalla sua completa acquisizione, sorgono i presupposti del diritto all’oblio.

Il diritto all’oblio è anch’esso di creazione giurisprudenziale, collocato tra i diritti inviolabili menzionati da quella norma dinamica che è l’art. 2 Cost. E’ il diritto di un individuo ad essere dimenticato, o meglio, a non essere più ricordato per fatti che in passato furono oggetto di cronaca. Il suo presupposto è che l’interesse pubblico alla conoscenza di un fatto è racchiuso in quello spazio temporale necessario ad informarne la collettività, e che con il trascorrere del tempo si affievolisce fino a scomparire. In pratica, con il trascorrere del tempo il fatto cessa di essere oggetto di cronaca per riacquisire l’originaria natura di fatto privato. Ecco che un rapinatore potrà invocare il diritto all’oblio se il fatto che lo portò alla ribalta dieci anni prima venisse riproposto in tv.

Il diritto all’oblio è quindi la naturale conseguenza di una corretta e logica applicazione dei principi generali del diritto di cronaca. Come non va diffuso il fatto la cui diffusione (lesiva) non risponda ad un reale interesse pubblico, così non va riproposta la vecchia notizia (lesiva) quando ciò non sia più rispondente ad una attuale esigenza informativa.

Ma un ulteriore fondamento del diritto all’oblio va rinvenuto nell’art. 27, comma 3°, Cost., secondo cui “Le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”. E’ il principio della funzione rieducativa della pena. Questa, cioè, non deve avere soltanto la funzione di punire, ma anche (e soprattutto) quella di favorire il reinserimento sociale del condannato, la sua restituzione alla società civile. Ebbene, la pena non potrebbe assolvere alla funzione di restituire il condannato alla società civile se in quest’ultima rimanesse ben saldo il ricordo di quanto quel condannato ha fatto. Ricordo che sarebbe rafforzato proprio dalla riproposizione dello stesso fatto. E ciò dovrebbe valere tanto per i reati minori, quanto per quelli più efferati.

Ma con dei limiti. Vi sono fatti talmente gravi per i quali l’interesse pubblico alla loro riproposizione non viene mai meno. Si pensi ai crimini contro l’umanità, per i quali riconoscere ai loro responsabili un diritto all’oblìo sarebbe addirittura diseducativo. O ad altri gravi fatti che vengono riproposti proprio perché non vengano dimenticati. O anche a vicende che si può dire abbiano modificato il corso degli eventi diventando Storia, come l’attentato al Papa, il “caso Moro”, i fatti più eclatanti di “Tangentopoli”. Qui non si può parlare di diritto all’oblìo perché i fatti non diventano mai “privati”. Al contrario, sarebbe proprio la loro mancata riproposizione a porsi in contrasto con l’interesse pubblico, che qui prevale sempre sul diritto del singolo individuo a non essere più ricordato.

Ma ad eccezione dei casi in cui l’interesse pubblico è destinato a non affievolirsi, il diritto all’oblio scatta sempre, a partire dal momento in cui cessa l’interesse pubblico intorno ad un fatto perché ormai acquisito. Per il protagonista in negativo della vicenda, quel fatto diventa “privato” ed acquista pienezza il suo diritto alla riservatezza.

Essendo il diritto all’oblio subordinato al perdurare della mancanza dell’interesse pubblico, può accadere che a distanza di tempo sorga un interesse pubblico alla riproposizione del fatto medesimo. E’ il caso di chi, essendo stato condannato per stupro anni prima, commette un’altra violenza sessuale appena uscito dal carcere. Qui diventa legittima non soltanto la diffusione della notizia relativa all’ultima violenza, ma anche la rievocazione del vecchio delitto, poiché stimola nell’opinione pubblica l’inevitabile dibattito sulla funzione rieducativa del carcere, nonché sulle misure da adottare per contrastare un’autentica piaga sociale. Come è stata legittima la rievocazione, a distanza di trent’anni, del massacro del Circeo ai danni di Angelo Izzo, dopo che questi ne aveva replicato la ferocia smentendo così ogni ipotesi di ravvedimento.

Un aspetto delicato del diritto all’oblio riguarda il soggetto legittimato ad invocarlo. E’ scontato che quel soggetto debba essere colui che verrebbe danneggiato dalla riproposizione del fatto. Il protagonista in negativo della vicenda, la cui reputazione fu legittimamente lesa a suo tempo da un corretto esercizio del diritto di cronaca. Tuttavia, vi sono fatti la cui rievocazione finisce per pesare, di riflesso e in modo differente, su chi li ha dolorosamente vissuti nel ruolo di vittima. Qui la riproposizione della vicenda potrebbe comprometterne non il reinserimento sociale, ma il benessere psico fisico, poiché rivivrebbe mentalmente sofferenze che chiunque vorrebbe aver dimenticato per sempre. Un problema che, nella rievocazione dei casi più gravi di cronaca nera, tocca per ovvi motivi gli stretti congiunti della vittima.

Non esistono argomentazioni valide per riconoscere un diritto all’oblio alla vittima materiale, anche se può sembrare paradossale riconoscerlo al carnefice. Ma il motivo è semplice. Il diritto all’oblio sorge a tutela della reputazione di un soggetto, risacrificabile soltanto in presenza di un ritorno dell’interesse pubblico. Per la vittima, la rievocazione di un fatto passato non pone mai problemi di lesione della reputazione. Di conseguenza, qualora dovesse sorgere l’interesse pubblico alla riproposizione di un fatto potenzialmente lesivo della reputazione del carnefice, le esigenze di riservatezza della vittima verrebbero assorbite da quello stesso interesse pubblico. Fermi restando, tuttavia, quegli accorgimenti volti ad impedire una identificazione della vittima su larga scala. Accorgimenti che tutelano, per quanto possibile, la sua riservatezza; e che al contrario non vanno adottati nei riguardi del carnefice, vero oggetto dell’interesse pubblico.

Il diritto all’oblio non può, quindi, essere rivendicato autonomamente dalla vittima. La conclusione può anche logicamente trarsi dalla soluzione che andrebbe fornita ad una particolare fattispecie: quella dei congiunti delle vittime di casi di cronaca nera ancora avvolti nel mistero. Si pensi, per citarne alcuni, al caso di Emanuela Orlandi, al delitto di via Poma, a quello dell’Olgiata, al delitto Pasolini, a quelli del mostro di Firenze, e ad altri che tuttora, nella migliore delle ipotesi, continuano a presentare dubbi e incertezze. Tutti casi la cui riproposizione soddisfa ancora oggi un’indubbia esigenza informativa. La riproposizione di casi irrisolti o comunque misteriosi presenta una duplice utilità sociale. In primo luogo, la collettività viene aggiornata sullo stato delle indagini. In secondo luogo, si rende operante un principio di natura squisitamente democratica: si permette la partecipazione ideale della collettività alla soluzione del caso, stimolando un dibattito che per forza di cose resta aperto.

Per questi ultimi casi, sarebbe la semplice pretesa di un diritto all’oblio a contrastare con l’interesse pubblico, perché ostacolerebbe la stessa funzione informativa. Tra l’altro, qui parlare di diritto all’oblio potrebbe anche considerarsi errato, dal momento che si tratta di casi “aperti” in quanto non ancora risolti. Il diritto all’oblio, invece, sorge proprio nel momento in cui non vi è più alcuna necessità di informare o aggiornare il pubblico.

Al limite, di diritto all’oblio può legittimamente parlarsi per quei soggetti che all’epoca dei fatti furono posti all’attenzione del pubblico per dovere di completezza della notizia, pur avendo una posizione marginale. E’ possibile che l’interesse pubblico alla riproposizione del fatto non sia tale da rendere necessaria una loro partecipazione. Ad esempio, se dopo il massacro del Circeo furono intervistati i vicini di casa, i parenti o gli amici di Angelo Izzo per raccogliere le loro impressioni, questi avrebbero potuto invocare il diritto all’oblio se nel riproporre l’evento in tv dopo trent’anni fossero state mostrate quelle interviste. A maggior ragione chi già oggetto di cronaca perché erroneamente sospettato dagli inquirenti di un grave delitto, poi attribuito ad altri, e dopo anni si rivedesse associato a quel delitto pur nel rispetto della verità dei fatti.

Si può dire, quindi, che qualora sorga l’interesse pubblico alla riproposizione di un fatto passato, non potranno invocare il diritto all’oblio quei soggetti che risultavano in relazione diretta con il fatto. In una parola, gli attori principali. Ciò a prescindere dal ruolo di carnefice, vittima o testimone che fu loro attribuito dalla cronaca. Soggetti la cui eventuale esclusione dalla riproposizione del fatto passato ne ostacolerebbe una fedele ricostruzione, finendo così per vanificare il risultato informativo cui mira la stessa riproposizione.

E’ evidente che nessun problema di riservatezza si pone quando i soggetti potenzialmente tutelati dal diritto all’oblio forniscono il proprio consenso alla rievocazione del fatto.

Il killer del messaggero

Il 'caso Sutter'

Eva Mikula nella Uno bianca