Il killer di Re Cecconi

Nel maggio 1983 su vari quotidiani viene riportata la notizia che la Rai sta ultimando la preparazione di uno sceneggiato televisivo dal titolo L’appello, che tratta del “caso Re Cecconi”, il giocatore della Lazio ucciso a Roma da Bruno T. mentre per gioco simulava una rapina nella gioielleria dell’amico. Lo sceneggiato narra la vita dei coniugi T., della loro amicizia con il calciatore, fino a quella tragica sera del 18 gennaio 1977.

I due coniugi entrano in possesso del copione e lo leggono attentamente. Lui è descritto come un individuo incolto, molto attaccato al denaro e dal grilletto facile; lei come donna quasi esclusivamente impegnata a riporre oggetti negli scaffali della gioielleria. Dopo averlo letto, i coniugi ritengono che la sceneggiatura violi il loro diritto alla identità personale.

Così, citano in giudizio la Rai dinanzi al Tribunale di Roma, chiedendo di inibire la messa in onda dello sceneggiato. Il Tribunale accoglie la domanda. Ma la Corte d’Appello di Roma riforma la sentenza di primo grado, riconoscendo il diritto di cronaca. I coniugi T. ricorrono per cassazione.

La Suprema Corte conferma la sentenza d’appello, affermando che “Nella dialettica che viene ad instaurarsi tra il diritto alla identità personale ed i contrapposti diritti di cronaca e di creazione artistica, si riflette quel fenomeno di confliggenza di interessi che trova soluzione attraverso il contemperamento e l’equo bilanciamento delle libertà antagoniste, in modo che la tutela dell’una non escluda quella delle altre. Un tale bilanciamento di opposti valori costituzionali si risolve nel riconoscimento della libera esplicabilità del diritto di cronaca e nella sua prevalenza sul diritto all’identità personale ove ricorra la condizione della verità dei fatti, oltre a quella dell’utilità sociale e della continenza formale”.

(Cass. 7 febbraio 1996, n. 978)
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Cominciando da Bruno T., questi ricorre al Tribunale di Roma lamentandosi di essere stato descritto come uomo incolto, molto attaccato al denaro e dal grilletto facile. La lesione del diritto all’identità personale sarebbe stata sostenibile nella misura in cui fosse stata dimostrata una divergenza tra la personalità di Bruno T. e quella descritta nello sceneggiato.

Giustamente il Tribunale ha escluso una tale divergenza. Infatti, nelle numerose interviste rilasciate dopo il tragico evento, il T. aveva consegnato all’opinione pubblica un’immagine di sé come di persona che si rammaricava di non aver potuto ricevere un’istruzione adeguata perché povero dalla nascita, probabilmente al comprensibile scopo di suscitare nel pubblico sentimenti di pietà.

Quanto poi al presunto attaccamento al denaro e alla familiarità con l’uso delle armi, era risultato che il T. aveva già ferito gravemente un rapinatore nel proprio negozio; e che non aveva esitato a ricorrere alle armi persino per sventare un tentativo di scippo ai danni della moglie. Quindi, lo sceneggiato televisivo avrebbe narrato fatti veri. In sostanza, il T. non può dolersi della rappresentazione che di sé viene data, essendo proprio lui ad averla stimolata.

La moglie si lamenta di essere rappresentata per lo più nell’atto di riporre oggetti negli scaffali della gioielleria. La Suprema Corte esclude che una tale rappresentazione, anche se riportata con modalità ossessive, possa aver violato la sua identità personale, perché si riferisce ad “un gesto connaturale all’attività svolta nel negozio”.

In effetti, riporre oggetti negli scaffali è certamente un gesto che qualsiasi negoziante ripete con frequenza. Soprattutto viene da pensare, dopo quanto accaduto, che con ogni probabilità vi era nella gestione della gioielleria una precisa divisione di compiti, che vedeva il marito curare il rapporto con la clientela e la moglie l’organizzazione interna del negozio. Di conseguenza, non serve scomodare il diritto alla creazione artistica, in quanto il problema di giustificare un’eventuale divergenza tra realtà e narrazione qui nemmeno si pone.

Il presente caso offre lo spunto per alcune considerazioni sul rapporto tra diritto all’identità personale ed opera cinematografica informativa.

Le considerazioni non sono dissimili da quelle già viste per i casi di lesione alla reputazione. Ciò in quanto la descrizione di una personalità non può che avvenire attraverso la rappresentazione di fatti. Di conseguenza, come è legittimo narrare fatti immaginari (fatti minori) a condizione che non alterino l’informazione base (fatto maggiore), così si potrà colorare il personaggio con l’attribuzione di fatti minori e sfumature caratteriali tali da non travisarne la personalità.

Per restare nell’esempio del “caso Re Cecconi”, non sarebbe stato lesivo dell’identità personale di Bruno T. ritrarlo in una scena simile a quella che rese celebre Robert De Niro in "Taxi driver", in cui l’attore, davanti allo specchio e pistola in pugno, simula fulminee reazioni compiacendosi dei progressi fatti nell’uso delle armi da fuoco. Un fatto (minore) falso, ma anche un’innocua colorazione del personaggio che avrebbe potuto legittimamente far risaltare la disinvoltura con cui il gioielliere faceva ricorso alle armi (fatto maggiore). Come sarebbe stato pure legittimo ritrarlo in frequenti esercitazioni al poligono di tiro.

Non sarebbe stato legittimo, invece, ritrarlo in battute di caccia mentre si esalta e prova piacere nell’uccidere la selvaggina, poiché ciò avrebbe travisato la componente essenziale della sua personalità, il fatto maggiore, vale a dire la disinvoltura nell’adoperare la pistola, ma soltanto a fini difensivi.