Niente gogna mediatica per gli sfruttatori sessuali

Il 19 novembre 2003 quotidiani nazionali e testate giornalistiche televisive danno grande risalto ad un’operazione anti droga, condotta dalla Procura della Repubblica di Roma. L’operazione ha portato all’arresto di 20 persone tra cui imprenditori, funzionari ministeriali, modelle e militari della Guardia di Finanza. L’accusa è di associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, al favoreggiamento e allo sfruttamento della prostituzione. Tra gli arrestati figura una nota attrice italiana, accusata di detenzione e spaccio di cocaina.

La notizia è accompagnata dalle indicazioni delle generalità di tutti gli arrestati. Di alcuni vengono pubblicate anche le foto segnaletiche, distribuite dalla Polizia ai giornalisti nel corso della conferenza stampa.

Dopo pochi giorni, sulla questione interviene d’ufficio il Garante per la Protezione dei Dati Personali. Secondo il Garante, nel caso di specie “non risultano sussistenti i necessari fini di giustizia e di polizia per la messa a disposizione di giornalisti delle immagini e la loro conseguente diffusione”. Rilevato che la pubblicazione delle immagini è avvenuta “con pregiudizio della dignità delle persone interessate […] anche in riferimento ai trattamenti di dati personali per scopi di prevenzione, accertamento o repressione dei reati”, il Garante vieta alle testate giornalistiche “l’ulteriore diffusione delle immagini”, imponendo alle stesse di “conformare i trattamenti di dati personali ai principi richiamati nel provvedimento, astenendosi da ulteriori trattamenti in difformità dei medesimi principi”.

(Garante per la Protezione dei Dati Personali, 26 novembre 2003)
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Il caso riguarda la diffusione dell’immagine di persone in stato di detenzione, che secondo quanto stabilito dall’art. 8 del codice di deontologia dei giornalisti può avvenire soltanto con il consenso dell’interessato, salvo ipotesi particolari. Si tratta, quindi, di verificare se il caso in questione può farsi rientrare in una di quelle ipotesi. In particolare, va verificato se “rilevanti motivi di interesse pubblico” oppure “comprovati fini di giustizia e di polizia” avrebbero legittimato la diffusione delle foto segnaletiche a prescindere dal consenso degli interessati.

Difficile qui giustificare la diffusione delle immagini sulla base di “rilevanti motivi di interesse pubblico”. Logicamente, questi rappresentano una situazione aggiuntiva rispetto a quella che ha determinato la stessa pubblicazione della notizia. Viene quindi da pensare non a chi è stato arrestato, ma a chi è sfuggito ad un ordine di cattura e potrebbe rappresentare un pericolo per la collettività.

Rimane l’ipotesi della diffusione dell’immagine per “comprovati fini di giustizia e di polizia”, ipotesi prevista anche dall’art. 97, comma 1°, L. n. 633/1941 (“legge sul diritto d’autore”). E la soluzione è strettamente legata alla natura dei reati contestati agli interessati.

Non c’è dubbio che il reato di associazione per delinquere crea di per sé un certo allarme sociale. Ma punto fondamentale è il tipo di comportamento che gli interessati hanno avuto di mira associandosi: spacciare stupefacenti e sfruttare sessualmente ragazze. Qui si è di fronte a comportamenti a lesività diffusa, che implicano un precedente rapporto tra l’arrestato e un numero indeterminato di persone. Soggetti che hanno certamente subito un pregiudizio da questi comportamenti, soprattutto se si pensa alle ragazze sfruttate sessualmente, considerate vittime nella struttura del reato di sfruttamento della prostituzione e che sono in grado di fornire ulteriori utili elementi al lavoro investigativo, oltre a poter reclamare giustizia.