Morte a Roma

Negli anni ’70 viene pubblicato il libro “Morte a Roma” dello scrittore Robert Katz. Il libro si propone di dare una nuova lettura storica dell’atteggiamento, nei riguardi della Germania nazionalsocialista, di Papa Pio XII. A detta dell’autore, il Papa avrebbe agito per il consolidamento del potere nazista in Italia, spinto dal timore che il paese potesse cadere nelle mani di forze ostili al Vaticano. L’atteggiamento di complicità con il regime hitleriano avrebbe raggiunto il culmine in occasione della strage delle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944, quando Pio XII – sempre secondo l’autore – pur essendo a conoscenza dell’imminente strage, non si era opposto in alcun modo alle autorità tedesche. Tesi, questa, che viene riproposta nel film “La rappresaglia” di Carlo Ponti, alla cui sceneggiatura collabora lo stesso Katz.

E.R., nipote di Pio XII, giudica entrambe le opere gravemente lesive della reputazione del Pontefice. Querela per diffamazione l’autore di “Morte a Roma”, nonché il produttore e il regista del film “La rappresaglia”. Il Tribunale di Roma li condanna tutti per diffamazione, ma la Corte d’Appello di Roma riforma la sentenza e assolve gli imputati riconoscendo loro il diritto di critica storica. Si va in Cassazione.

La Corte di Cassazione annulla la sentenza d’Appello escludendo il diritto di critica storica e affermando che “Al fine di valutare la sussistenza del reato di diffamazione con attribuzione di un fatto determinato in un’opera di rievocazione storica, il giudice di merito deve esercitare non soltanto un controllo estrinseco diretto a valutare se il risultato della ricerca possieda i caratteri dell’opera storiografica, ma anche un controllo circa la corrispondenza a verità dei fatti esposti e addebitati”.

(Cass. 4 gennaio 1984, n. 6)
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Le affermazioni che hanno portato lo scrittore Robert Katz sul banco degli imputati riguardano due tipi di comportamento che in “Morte a Roma” l’autore avrebbe attribuito a Pio XII durante l’occupazione tedesca. Il primo è di ordine generale: il Papa avrebbe tenuto nei confronti del regime nazista un atteggiamento di connivenza, a tratti di apertura, perché spinto dalla necessità di evitare che in Italia il potere venisse preso da forze ostili al Vaticano.

Di per sé una simile critica non è illegittima. A causa della sua genericità, non si presta ad un controllo sulla verità delle affermazioni. Quanto più la critica è generica, tanto più contribuisce a dare vita ad un vivace e costruttivo dibattito. E in una democrazia il dibattito va sempre incoraggiato.

La stessa cosa non può dirsi riguardo al secondo comportamento che lo scrittore attribuisce a Pio XII. Si tratta di un’accusa circostanziata, in quanto attribuisce un preciso e grave fatto, che come tale deve fare i conti con il requisito della verità. Lo scrittore sostiene che il Papa era perfettamente a conoscenza dell’imminente strage che si stava preparando alle Fosse Ardeatine, ordinata da Hitler in persona come rappresaglia all’uccisione di 33 soldati tedeschi in occasione dell’attentato di via Rasella compiuto dai partigiani romani. E non avrebbe fatto nulla per impedire la strage. Non avrebbe neanche tentato di entrare in contatto con le autorità tedesche per dissuaderle dall’ordinare la rappresaglia.

Ebbene, quest’ultima accusa, anche per la sua gravità, avrebbe dovuto essere supportata da elementi che la indicassero come vera. Al contrario, lo scrittore non indica alcuno di questi elementi, né dimostra di essere pervenuto a tale conclusione attraverso un lavoro di ricerca della verità.

La sentenza della Corte d’Appello di Roma (poi annullata dalla Corte di Cassazione) aveva assolto lo scrittore riconoscendogli il diritto di critica storica. La Corte d’Appello aveva sostenuto che alla storiografia, in quanto scienza, va applicato l’art. 33 Cost.; e che pertanto il giudice non avrebbe potuto esercitare un controllo intrinseco sul contenuto dell’opera per verificare la corrispondenza a verità dei fatti riportati.

Ma si è già visto come un tale ragionamento non possa essere accettato. Se nella critica storica si prescindesse da qualsiasi verifica sulla verità delle affermazioni che attribuiscono comportamenti riprovevoli a personaggi del passato, la libertà di cui all’art. 33 Cost. si tradurrebbe in un consenso permanente alla diffamazione. Ciò a scapito non solo della memoria dei defunti, ma anche della credibilità della stessa scienza storiografica, che non compie soltanto valutazioni ma anche accertamenti. Qui l’irrilevanza del requisito della verità significherebbe libertà di falsificare la Storia, con le disastrose conseguenze che si possono immaginare. Tra l’altro, le affermazioni dell’autore non sono frutto di un sia pur minimo lavoro di indagine, che qui, in considerazione della gravità delle accuse e della indubbia presenza di fonti storiche, avrebbe dovuto essere particolarmente accurato.

Ma alcune osservazioni vanno fatte anche sulla sentenza della Corte di Cassazione. Essa espressamente impone al giudice un duplice controllo: estrinseco, diretto a stabilire se la critica sia contenuta in un’opera definibile storiografica; ed intrinseco, diretto a verificare la corrispondenza a verità di quanto affermato nell’opera.

La conclusione della Suprema Corte è condivisibile, ma non la sua motivazione. Un’opera storiografica, quando è definibile tale, è ontologicamente diretta all’accertamento della verità. L’eventuale esito positivo del controllo estrinseco, diretto a verificare la validità del metodo di indagine seguito nell’accertamento dei fatti, renderebbe inutile il controllo intrinseco. Come si è già detto, ciò che conta nella ricostruzione storica è il metodo. Se il lavoro di indagine e di ricerca adottato dallo storico risulta improntato a serietà e diligenza, è esso stesso a dimostrare che la ricostruzione storica è esatta. Non avrebbe senso, quindi, verificare che le conclusioni dello storico corrispondano a verità. Lo storico accerta fatti passati, come il giornalista accerta fatti presenti quando fa cronaca. Se a costui viene riconosciuta la verità putativa in presenza di un serio e diligente lavoro di ricerca, allo stesso modo il critico storico deve essere giudicato quando ricostruisce fatti passati. Una diversità di trattamento non avrebbe senso, oltre ad apparire ingiusta.

Ed è proprio il metodo di indagine che è venuto a mancare nel caso in questione. L’autore di “Morte a Roma” ha attribuito a Pio XII un fatto specifico gravissimo senza aver compiuto una qualsiasi indagine storiografica che potesse in qualche modo giustificare le proprie affermazioni. Affermazioni che pertanto non possono essere in alcun modo ricondotte alla libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost.