Il dirigente mascalzone

Il 15 dicembre 1995 in una bacheca all’interno dei locali dell’I.M.I. viene affisso un comunicato sindacale a firma C.G. e S.L. In esso si denuncia che la dirigenza aziendale non pubblicizza gli avanzamenti di carriera del personale dipendente, in violazione di precise disposizioni del contratto collettivo. Viene definita “mascalzonata” la mancata promozione a capo ufficio di C.F. in spregio alle più elementari regole sulla valorizzazione professionale. La decisione viene attribuita specificamente al dott. M. e al dott. V., rispettivamente capo e vice capo del personale dipendente. In particolare quest’ultimo, secondo il comunicato, avrebbe assunto nei riguardi di C.F. un atteggiamento “fortemente intimidatorio”, inducendolo a non restare ulteriormente nell’I.M.I. perche “anche a nome del Comitato di Direzione” in ogni caso “mai sarebbe stato promosso capo ufficio”.

Il dott. M. e il dott. V. sporgono querela contro i firmatari del comunicato. Il Tribunale di Roma assolve gli imputati riconoscendo loro il diritto di critica sindacale. Ma la Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, condanna entrambi per diffamazione. Contro la sentenza d’appello C.G. e S.L. ricorrono per cassazione.

La Corte di Cassazione annulla la sentenza della Corte d’Appello e assolve gli imputati riconoscendo loro il diritto di critica sindacale. Secondo la Suprema Corte, posto che “la critica sindacale, se non fosse vivace e graffiante, perderebbe gran parte della sua efficacia polemica […], l’uso dei termini "mascalzonata" e "intimidatorio" non debordano dal limite della critica, in quanto restano circoscritti nella sfera della mera oggettività quando caratterizzino, in chiave di suggestiva immediatezza, quello che obiettivamente pare essere un’azione platealmente scorretta”.

(Cass. 27 giugno 2000, n. 7499)
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La sentenza è ineccepibile. Dall’accertamento dei fatti è risultato che in effetti gli avanzamenti di carriera che avvenivano in azienda non venivano pubblicizzati, al contrario di quanto imponevano gli accordi sindacali. Inoltre, sono risultate vere le esortazioni dei massimi responsabili del personale verso C.F. a riporre ogni speranza in una promozione. Il requisito della verità, quindi, è risultato pienamente rispettato.

La sentenza è interessante soprattutto per il riferimento ad un’esigenza di oggettivazione della critica. Secondo la Suprema Corte, possono legittimamente definirsi “mascalzonata” e “gravemente intimidatorio” i comportamenti tenuti dai capi del personale, una volta appuratane la verità. Ciò in quanto i termini adoperati, seppure pesanti, non si riferiscono alle persone, ma a loro comportamenti verificati. Qui viene confermato quanto detto proprio introducendo l’argomento della critica: quanto più la si fa convergere verso fatti o comportamenti il più possibile oggettivati, allontanandola cioè da presunti modi di essere della persona, tanto maggiore è la probabilità che sia ritenuta legittima.

E’ probabile che la decisione della Suprema Corte sarebbe stata ben diversa se la critica fosse consistita nel dare al dott. M. e al dott. V. del "mascalzone" e dell’"intimidatore", proprio perché in questo caso la valutazione li avrebbe caratterizzati in modo continuativo, anziché criticarli per un episodio circoscritto nel tempo e nel preciso contesto aziendale. Tuttavia, è utile verificare se nel caso in questione non sarebbe stato possibile ritagliare spazi di legittimità per ricondurvi una critica ancora più aspra.

Innanzitutto è agevole osservare come il comportamento dei vertici dell’I.M.I. abbia prodotto uno squilibrio contrattuale ai danni di C.F., negandogli la tanto sospirata promozione. E come probabilmente tale squilibrio si sia manifestato anche ai danni di altri dipendenti, dal momento che i meccanismi delle promozioni venivano sistematicamente occultati. Già questo è sufficiente a far considerare al giudice in maniera più elastica i limiti del diritto di critica.

Ma vi è di più. Il comportamento dei capi del personale ha violato le norme stabilite in sede di contrattazione collettiva sulla trasparenza dei criteri adottati per gli avanzamenti di carriera dei dipendenti. Nonostante l’esperienza maturata, C.F. non è stato promosso. Per giunta, gli è stato esplicitamente detto “anche a nome del Comitato di Direzione” di cambiare lavoro perché “mai sarebbe stato promosso”. Il comportamento dei capi, oltre ad essere illegittimo, è qualificabile come odioso per via di quelle frasi, rivolte a C.F., che avvilirebbero chiunque.

Nel comportamento globale tenuto dai vertici dell’I.M.I., vi sono, quindi, gli estremi di quel “fatto ingiusto” che l’art. 599, comma 2°, c.p. riconduce al concetto di provocazione. Che, secondo quanto detto introducendo l’argomento della critica sindacale, legittima una reazione che va oltre i già elastici limiti della critica sindacale, quando sia riconducibile ad uno “stato d’ira”.

E’ chiaro che i giudici non hanno accertato la sussistenza dello stato d’ira. Ma il comportamento tenuto dai vertici aziendali può certamente essere classificato tra quelli idonei a provocarlo, e a far sì che si esteriorizzi nella manifestazione di critica. In effetti, quello di svantaggiare un lavoratore nonostante la sua competenza, è uno dei comportamenti più odiosi che si possano riscontrare in un luogo di lavoro. Da notare, poi, nella frase rivolta a C.F., il riferimento ad una presunta contrarietà di tutto il Comitato di Direzione alla sua promozione: circostanza che indubbiamente ne aggrava la lesività, svelando il sadico intento di far percepire a C.F. una inspiegabile avversione, nei suoi riguardi, dell’intera dirigenza aziendale.

In quest’ottica, si può certamente sostenere che il comunicato sindacale affisso nella bacheca dell’I.M.I. avrebbe potuto legittimamente indirizzare, soprattutto nei riguardi del dott. V., una critica ben più aspra di quella manifestata.