Il giudice forcaiolo

Nel 1996 viene pubblicato il libro “Meno grazia più giustizia”, scritto dal dott. M.M., procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Torino. In questo libro il magistrato manifesta la sua concezione della giustizia, definendo espressamente l’arresto “momento magico” del processo e la custodia cautelare “uno dei cardini della strategia investigativa”. Il magistrato scrive anche che il Parlamento aveva approvato leggi “salva ladri”, e che il codice di procedura penale, così come ideato, rappresentava “una pacchia” per le organizzazioni criminali.

Il 25 marzo 1997 sul periodico “L.D.L.” viene pubblicato un articolo a firma G.D. dal titolo “M.: un uomo, una legge. La sua”. L’articolo è una dura critica alle concezioni che il magistrato manifesta nel suo libro. G.D. lo attacca per essersi “gloriato di non rispettare le leggi”. Afferma, inoltre, che “per M. la presunzione di innocenza prevista dalla Costituzione è un concetto sbagliato e da abolire”.

Il dott. M.M. querela l’articolista per diffamazione. Il Tribunale di Roma lo condanna con il beneficio della condizionale. La Corte d’Appello di Roma conferma la condanna, e appesantisce la posizione di G.D. revocando il beneficio della condizionale che gli era stato concesso in primo grado. Si va in Cassazione.

La Corte di Cassazione annulla la sentenza d’appello riconoscendo all’articolista il diritto di critica. Nella sentenza si legge che “[…] poiché la critica si estrinseca nella manifestazione di giudizi ed apprezzamenti, piuttosto che nella esposizione di fatti oggettivi, il limite della verità è quello che resta maggiormente compresso, sottraendosi alla verifica circa l’assoluta obiettività delle circostanze segnalate” e che “il limite all’esercizio del diritto di critica resta travalicato quando l’agente trascenda ad attacchi personali volti a colpire sul piano individuale il bersaglio della critica, senza alcuna finalità di pubblico interesse ma all’unico scopo di aggredire la sfera morale altrui”.

(Cass. 26 aprile 2004 n. 19334)
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La sentenza offre spunti interessanti in relazione al valore da attribuire al requisito della verità nel diritto di critica.

Le sentenze di condanna del Tribunale e della Corte d’Appello avevano fornito, per il caso in questione, un’interpretazione piuttosto restrittiva del concetto di verità, adatta più per il diritto di cronaca che per il diritto di critica. Si erano basate sul fatto che il magistrato non aveva mai scritto nel suo libro quanto attribuitogli dall’articolista, ossia che si era “gloriato di non rispettare le leggi” e che considerava la presunzione di innocenza “un concetto sbagliato e da abolire”. E su queste basi non avevano riconosciuto il diritto di critica per violazione del requisito della verità.

La Suprema Corte, invece, è di avviso contrario. Presuppone che nel diritto di critica il requisito della verità non possa atteggiarsi come nel diritto di cronaca. Il diritto di critica prescinde dall’esigenza informativa che, al contrario, accompagna sempre il diritto di cronaca. Di conseguenza, nel giudizio di legittimità della critica il requisito della verità va interpretato in maniera meno rigida. Come dice la Suprema Corte, nel diritto di critica “il limite della verità è quello che resta maggiormente compresso, sottraendosi alla verifica circa l’assoluta obiettività delle circostanze segnalate”.

Per comprendere meglio la decisione della Suprema Corte, bisogna innanzitutto valutare in che misura l’articolista si è discostato dalla verità obiettiva, in modo da poter verificare se possa essere tollerata la discrepanza tra quanto obiettivamente accaduto e quanto riferito dall’articolista, tenendo presente quella “compressione” del limite della verità che è fisiologica nella critica.

L’articolista, nel commentare il libro scritto dal magistrato, lo aveva accusato di essersi “gloriato di non rispettare le leggi” e di ritenere la presunzione di innocenza “un concetto sbagliato e da abolire”. Ebbene, queste affermazioni critiche dell’articolista vanno necessariamente rapportate alla generale concezione della giustizia manifestata dal magistrato nel libro stesso.

Nel suo libro il magistrato M.M. manifesta una concezione della giustizia tutt’altro che garantista. Accusa il Parlamento di aver emanato leggi “salva ladri”, con particolare riferimento a quelle modifiche al codice di procedura penale che hanno ridimensionato i poteri del gip e del pm in materia di custodia cautelare e che hanno fatto dello stesso codice secondo le parole del magistrato “una pacchia” per le organizzazioni criminali. Definisce l’arresto “momento magico” del processo e la custodia cautelare “uno dei cardini della strategia investigativa”.

Ora, da queste frasi emerge con evidenza una concezione che vuole limitate al massimo le garanzie di chi è indagato, e che quasi anticipa alla fase delle indagini preliminari il giudizio di colpevolezza. Una concezione, pertanto, in contrasto con il principio costituzionale di presunzione di innocenza. Può quindi ritenersi esatta la deduzione dell’articolista circa la contrarietà del magistrato M. a quel principio, tanto da considerarlo “sbagliato e da abolire”.

In pratica, la critica dell’articolista è consistita nell’estrapolare dal complesso del libro, nonché da precise e significative frasi, le concezioni del magistrato sul trattamento da riservare all’indagato. Concezioni che sono tutt’altro che in sintonia con il principio di presunzione di innocenza. Ed essendo la critica prima di tutto una valutazione, non si può dire che l’articolista abbia erroneamente valutato il pensiero espresso dal magistrato.

Più delicata, invece, la questione con riferimento alla frase dell’articolista secondo cui il magistrato si sarebbe nel suo libro “gloriato di non rispettare le leggi”.

In effetti, è una frase che contiene un’accusa circostanziata e grave. In pratica, sembrerebbe dire che il magistrato ha pubblicamente ammesso di aver violato le leggi nell’esercizio delle sue funzioni. E’ chiaro che nel suo libro il magistrato non ha mai detto una cosa del genere. E’ anche questa una estrapolazione dell’articolista, che va rapportata anch’essa alla generale concezione del magistrato desumibile dal libro.

Dal libro emerge chiaramente un dato: il magistrato attacca il Parlamento per avere approvato leggi “salva ladri” e fatto del codice di procedura penale “una pacchia” per le organizzazioni criminali. In effetti, da queste affermazioni non è azzardato sostenere che il magistrato, nella sua carriera di PM, abbia, di fatto, compresso alquanto le garanzie dell’indagato, procedendo ad un uso disinvolto dell’arresto e della custodia cautelare, perché intimamente convinto del loro rispettivo ruolo di “momento magico” del processo e di “cardine della strategia investigativa”. Non è nemmeno azzardato sostenere che una simile considerazione dell’arresto e della custodia cautelare l’abbia portato a violare la legge. E’ chiaro che si tratta di una valutazione, per forza di cose soggettiva come tutte le valutazioni critiche. Ma si tratta di una valutazione logica. Pertanto, anche la deduzione secondo cui il magistrato si è “gloriato di non rispettare le leggi” può ritenersi esatta, se collocata in un contesto di libertà di critica.

Un’ultima considerazione. Qui la Corte di Cassazione ha restituito al diritto di critica i suoi tradizionali spazi, rinunciando ad interpretare restrittivamente il concetto di critica rivolta ai magistrati. E’ possibile che la decisione riveli un’inversione di tendenza, che porti ad equiparare i magistrati a chiunque eserciti funzioni pubbliche. Ma è più probabile, invece, che la decisione sia derivata dal fatto che qui il magistrato era stato criticato per comportamenti che non avevano nulla a che vedere con l’esercizio della funzione giurisdizionale. Qui la critica non aveva avuto per oggetto un provvedimento del magistrato, ma la sua (libera) concezione della giustizia manifestata pubblicamente attraverso un libro. Insomma, era stato criticato il magistrato come libero pensatore, come individuo la cui libertà di pensiero è tutelata dall’art. 21 Cost., non come organo della giustizia che agisce nell’adempimento di un obbligo costituzionale.