CRONACA E DICHIARAZIONI ALTRUI

Quando il giornalista apprende un fatto lesivo della altrui reputazione da una fonte ufficiale, non è necessario che compia un lavoro di verifica della notizia. E potrà invocare la verità putativa se in seguito i fatti riportati si rivelassero falsi. Ciò in quanto tutto ciò che proviene da una fonte ufficiale è vero per definizione.

Invece, i fatti appresi da fonti prive di qualsiasi ufficialità possono essere pubblicati solo dopo un serio e diligente lavoro di ricerca teso a verificarne la corrispondenza alla realtà. Il giornalista deve ottenere serie conferme di quanto appreso.

In quest’ultima problematica va inquadrata la questione delle interviste. Il giornalista riporta dichiarazioni altrui, che possono rivelarsi diffamatorie perché l’intervistato attribuisce, a un determinato soggetto, fatti o comportamenti che pongono quest’ultimo in cattiva luce agli occhi del pubblico. Ovviamente nessun problema se l’intervistato, in virtù delle funzioni esercitate, è una fonte ufficiale: il particolare rapporto che lo lega al fatto esonera il giornalista da qualsiasi verifica.

Quando però l’intervistato non è riconducibile ad una fonte ufficiale, la posizione del giornalista si fa delicata. E alla medesima problematica va ricondotto il caso del giornalista che pubblica il contenuto di atti come le interpellanze e le interrogazioni parlamentari, oppure una lettera a firma di terzi. Trattasi sempre di dichiarazioni altrui che tuttavia non possono vantare quel rapporto privilegiato con il fatto che è tipico della fonte ufficiale.

In questi casi, la mancanza di qualsiasi carattere di ufficialità della fonte fa sì che il rapporto tra fatto lesivo e giornalista non sia diretto, ma mediato da un terzo. Verrebbe spontaneo pensare che, secondo i principi generali del diritto di cronaca, il giornalista, prima di procedere alla pubblicazione, dovrebbe verificare che quanto affermato dal terzo corrisponde a verità. E dovrebbe concorrere nell’illecito qualora le dichiarazioni del terzo contengano fatti che, una volta divulgati, si rivelassero falsi.

In effetti, questa era la soluzione inizialmente fornita dalla giurisprudenza. Secondo questo orientamento, il giornalista che riportava dichiarazioni altrui era considerato, al pari del terzo, responsabile dell’eventuale contenuto diffamatorio di quelle dichiarazioni. Un principio che non solo era poco rispettoso del diritto di cronaca, ma produceva risultati a dir poco paradossali, soprattutto quando veniva applicato alle dichiarazioni riconducibili alle interpellanze o alle interrogazioni dei parlamentari. Il giudice, infatti, condannava il giornalista per avere pubblicato le dichiarazioni diffamatorie del parlamentare, mentre per quest’ultimo era obbligato a dichiare la non procedibilità, poiché “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” (art. 68, comma 1°, Cost.).

L’assurdità del meccanismo è evidente. Veniva premiato il parlamentare che, magari in mala fede, si serviva del giornalista per portare attacchi mirati facendosi scudo delle proprie prerogative costituzionali; e condannato chi in buona fede dava credito ad una fonte autorevole, come certamente va considerato un membro del Parlamento, nella convinzione di adempiere a un dovere di informazione che era lo stesso parlamentare a stimolare.

Di recente si è registrato un orientamento opposto, che privilegia il diritto all’informazione e considera il giornalista, in presenza di determinate condizioni, un mero veicolo di dichiarazioni altrui. Se è vero, infatti, che il giornalista non può fungere impunemente da cassa di risonanza delle dichiarazioni diffamatorie di un terzo, è anche vero che quando le dichiarazioni provengano da un soggetto che ricopre un ruolo di rilievo nella vita pubblica, ciò che costituisce la notizia non è tanto il fatto oggetto della dichiarazione del terzo, quanto la dichiarazione in sé.

In questa diversa ottica la posizione del giornalista non può mai essere di corresponsabilità. Essendo strutturalmente dissociato dai fatti contenuti nelle dichiarazioni riportate, il giornalista non può essere obbligato a controllarne la veridicità. La rilevanza pubblica dell’autore delle dichiarazioni fa sì che la posizione del giornalista si colleghi esclusivamente all’evento dichiarazione. Ciò che diventa oggetto di interesse pubblico non sono i fatti in sé contenuti nella dichiarazione, ma il fatto stesso della dichiarazione. Il rispetto del requisito della verità, quindi, dipenderà dalla corrispondenza tra quanto divulgato dal giornalista e quanto effettivamente dichiarato dal terzo, senza che possa assumere rilevanza la verità dei fatti contenuti nelle dichiarazioni. E l’eventuale falsità del contenuto della dichiarazione rimane un fatto estraneo all’attività del giornalista, di cui risponderà soltanto il terzo.

Con il consolidarsi di questo orientamento il giornalista non è più visto come complice del diffamatore, ma come informatore obiettivo di una dichiarazione di pubblico interesse. Qui l’esigenza pubblica da soddisfare non è più la verità dell’informazione, ma la conoscenza dell’informazione. Si cessa così di criminalizzare il giornalista per valorizzarne la funzione sociale.

Presupposto irrinunciabile è la rilevanza pubblica del soggetto che rilascia le dichiarazioni. Ad essa corrisponde l’interesse sociale alla conoscenza delle sue dichiarazioni. Dal punto di vista dell’utilità sociale dell’informazione, quelle dichiarazioni, benché diffamatorie, sono da considerare alla stregua di autorevoli opinioni, proprio in quanto provenienti da un soggetto le cui esternazioni stimolano, nel bene o nel male, l’attenzione dell’opinione pubblica. Devono essere riferite integralmente, perché comunque riflettono la posizione del personaggio pubblico su una questione rilevante, posizione che la collettività ha il diritto di conoscere.

La soluzione opposta, seguita dalla giurisprudenza precedente, comprimerebbe il diritto dovere all’informazione. Infatti, se si imponesse di divulgare le affermazioni del personaggio pubblico solo in quanto vere, il giornalista, all’esito della verifica, potrebbe imbattersi nelle seguenti due situazioni.

Potrebbe accadere che i fatti narrati dal personaggio pubblico siano pura invenzione. In tal caso il giornalista, nel rispetto del dovere di verità, dovrebbe rinunciare alla pubblicazione. Priverebbe, però, il pubblico di una notizia di sicuro interesse, in considerazione della fonte, esercitando così una sorta di potere di censura.

Potrebbe anche accadere che i fatti affermati dal personaggio pubblico siano parzialmente falsi. Qui il giornalista, in alternativa alla rinuncia alla divulgazione, potrebbe procedere ad una sorta di “rettifica d’ufficio”, depurando le dichiarazioni delle falsità oppure riportando i fatti nella loro genuinità. Ma così facendo pubblicherebbe una notizia non vera, in quanto non riproduttiva delle dichiarazioni effettivamente rese dal personaggio pubblico e che costituiscono la “vera” notizia di pubblico interesse.

Insomma, qualsiasi delle due scelte che operasse il giornalista, si tradurrebbe in una lesione dell’interesse della collettività ad una precisa e obiettiva informazione.

Resta da considerare un altro punto. Il controllo della verità dei fatti dichiarati dal personaggio pubblico va omesso incondizionatamente? Oppure l’omissione è subordinata alla pari rilevanza pubblica del soggetto leso dalle dichiarazioni del terzo?

La risposta è nel come il termine “interesse pubblico” va inteso in una società democratica. Se si omette il controllo di veridicità delle esternazioni di un personaggio pubblico perché considerate alla stregua di autorevoli opinioni, è chiaro che la loro divulgazione diventa legittima solo se riferita a soggetti e situazioni che suscitano un pari interesse nella collettività. Dichiarazioni simili provocano inevitabilmente le reazioni del loro destinatario, stimolando così la dialettica democratica e il controllo della collettività sulla vita pubblica. Quindi, non avrebbe alcuna utilità sociale diffondere dichiarazioni di un personaggio pubblico indirizzate ad un privato cittadino, o riguardanti particolari intimi della sfera privata di un sia pur noto personaggio, proprio perché il privato cittadino non partecipa direttamente alla dialettica pubblica democratica, né la collettività ha titolo e interesse a esercitare un controllo sulla sfera privata di chicchessia.

Tra l’altro, la necessità che il destinatario delle esternazioni provenienti dal personaggio pubblico debba essere un suo “pari” è anche dettata da una naturale esigenza di replica. Un soggetto a rilevanza pubblica nulla non può certo utilizzare i mezzi di comunicazione cui può accedere il personaggio pubblico. Da questo punto di vista, il cosiddetto “processo mediatico” potrebbero avere una qualche legittimità solo se l’“accusato” fruisse di un accesso ai media non minore di quello garantito a chi dà impulso a quel processo.

In difetto del requisito della rilevanza pubblica così come qui specificato, il giornalista non esercita più una funzione sociale: quindi la sua attività non rientra più nel diritto di cronaca. Sarà corresponsabile delle dichiarazioni e ne risponderà penalmente e/o civilmente insieme al terzo.

Un’ultima osservazione. Il giornalista che si limiti a riportare dichiarazioni altrui esercita cronaca, a prescindere dal tenore delle dichiarazioni del terzo. Se questi esercita una critica (come accade il più delle volte), l’attività del giornalista rimane cronaca. Anche quando il terzo si lasci andare ad affermazioni in qualche modo riconducibili alla satira, l’attività del giornalista è sempre cronaca. Ciò è la logica conseguenza dell’essere qui la notizia costituita dall’evento dichiarazione, non dal suo contenuto.

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