LA CRITICA AI MAGISTRATI

La Costituzione affida l’esercizio del potere giudiziario ad un corpo di magistrati, selezionati in base al merito, che costituisce “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104, comma 1°, Cost.). La norma vuole impedire qualsiasi interferenza, o peggio, il controllo degli organi del potere politico sulla applicazione della legge, uno dei momenti istituzionali più delicati nella vita di un ordinamento. La funzione giurisdizionale va espletata nella massima serenità. Per questo la giurisprudenza tende a restringere alquanto l’area di legittimità della critica, quando è rivolta ai magistrati.

I tradizionali limiti del diritto di critica arretrano di fronte all’operato dei magistrati non soltanto perché va loro garantita la massima serenità di giudizio a tutela della propria indipendenza. Vi sono almeno due motivi di ordine logico.

Il primo motivo. A differenza dei Poteri legislativo ed esecutivo, che vengono esercitati attraverso un’attività discrezionale nella scelta sia dei fini che dei mezzi, il Potere giudiziario è attività vincolata alle scelte operate da Parlamento e Governo. Questi ultimi sono liberi di decidere, attraverso l’emanazione di norme, quali interessi tutelare e i mezzi attraverso cui apprestare la tutela. Il magistrato, invece, ha l’obbligo di accertare e reprimere la violazione di quelle norme con gli strumenti giuridici tassativamente fornitigli dalla legge, ossia nei tempi e nei modi predefiniti dai Poteri legislativo ed esecutivo. Lo si ricava dall'art. 101, comma 2°, Cost., secondo cui “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”.

Il secondo motivo. Nella sua funzione tipica, il magistrato reprime i comportamenti umani che contrastano con l’ordinamento. Lo fa attraverso un lungo e complesso iter, che accerta la verità nel rispetto del principio del contraddittorio. Questo iter culmina nella emanazione della sentenza, basata su quelle argomentazioni logiche e giuridiche che costituiscono la motivazione. La stessa attività giurisdizionale, quindi, rappresenta la forma più esemplare di critica, che il magistrato rivolge nei riguardi di un comportamento umano.

Una critica, però, lontana anni luce da quella finora analizzata, perché è espressione non della libertà garantita dall’art. 21 Cost., ma di un obbligo imposto dall’ordinamento. La critica che il giudice esprime in un provvedimento giudiziario nei riguardi di un comportamento umano non è frutto di una libera scelta, ma è una conseguenza obbligata dell’esercizio delle sue funzioni.

E’ agevole, quindi, comprendere come nei riguardi dell’attività giudiziaria la libertà di critica garantita dall’art. 21 Cost. subisca una compressione. Gli atti compiuti da un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni non possono essere posti sullo stesso piano delle azioni di un politico, il quale gode della più ampia libertà di scelta ed è sottoposto soltanto al giudizio dei propri elettori. Non è un caso che Giuliano Ferrara, massimo beneficiario dell’art. 21 Cost. in quanto giornalista, sia stato condannato per aver reso un’intervista nel corso della quale, nel denunciare un uso disinvolto della carcerazione preventiva da parte di alcuni pm, aveva parlato di “avvitamento antigarantista della magistratura italiana sino agli eccessi deliranti di Cordova”. Critiche di un simile tenore sono pressoché quotidiane fra i politici.

La limitazione della libertà di critica è giustificata soprattutto quando ha per oggetto uno specifico provvedimento giudiziario. Qui l’argomentazione su cui deve basarsi la critica assume un’importanza tutta particolare, in quanto lo stesso provvedimento giurisdizionale è la diretta conseguenza di un insieme di argomentazioni, obbligatorie, racchiuse nella motivazione e dirette a conferire validità e logicità al provvedimento finale.

In pratica, esiste sempre uno stretto collegamento tra provvedimento giudiziario e sua motivazione. La sentenza è sempre una conseguenza logica e diretta della motivazione. La sentenza esiste ed è valida se e nella misura in cui esiste la sua motivazione. Tant’è che la motivazione “insufficiente” o “illogica” di una sentenza è uno dei motivi per i quali può farsi ricorso in Cassazione. Di conseguenza, la critica al provvedimento giudiziario è legittima se chi la esprime manifesta proprie argomentazioni in contrapposizione a quelle contenute nella motivazione del provvedimento. La critica rivolta ad un provvedimento giudiziario che non richiamasse quella contrapposizione violerebbe il requisito della continenza formale.

Quindi, l’argomentazione su cui la critica si basa non dovrà limitarsi ad attaccare il risultato finale, ossia il dispositivo della sentenza. Ma dovrà avere di mira la stessa argomentazione adottata dal giudice per giungere alla decisione finale. Solo così la critica ad un provvedimento giudiziario potrà assumere quei toni aspri che in linea di principio sono sempre consentiti dall’art. 21 Cost.

Per chiarire il concetto, è utile richiamare la vicenda dell’assoluzione, nel gennaio 2005, dei presunti terroristi islamici ad opera del gip milanese Clementina Forleo dal reato di “associazione con finalità di terrorismo internazionale” perché l’attività materiale contestata loro è, per quel giudice, finalizzata non a compiere “atti terroristici”, ma a fornire appoggio logistico ad una “guerra di liberazione”, secondo una distinzione riconosciuta dallo stesso diritto internazionale.

Ebbene, non costituisce legittima critica affermare che la sentenza è un “favoreggiamento al terrorismo”, o che “strizza l’occhio al terrorismo internazionale”, o che addirittura quel giudice è “amica di Bin Laden”. Sarà legittima quella critica, anche dura, che nell’evidenziare la distinzione, operata dal giudice, tra appoggio ai movimenti di liberazione e attività terroristica, escluda la possibilità di ricondurre il comportamento degli imputati, così come emerso dagli atti, ad un’attività di appoggio ad un movimento di liberazione.

La conoscenza della motivazione del provvedimento giurisdizionale, ossia delle relative argomentazioni, è quindi indispensabile per una legittima critica al provvedimento stesso. Fino a quando non viene resa nota la motivazione, può tutt’al più esercitarsi il diritto di cronaca, nel rispetto dei suoi tradizionali limiti che qui non hanno alcun motivo di arretrare. Ma per la critica sarà indispensabile conoscere la motivazione, perché è proprio nei confronti delle argomentazioni in essa contenute che il critico potrà legittimamente e aspramente (ma con cognizione di causa) contrapporre le proprie.

Quanto detto, però, ha conseguenze logicamente diverse a seconda del tipo di funzione svolta dal magistrato. Con riferimento alla giustizia penale, è nota la differenza tra giudice e pubblico ministero, laddove il primo deve accertare la verità, mentre il secondo porta avanti un’accusa. Il primo decide in base alle risultanze del principio del contraddittorio, il secondo è parte del contraddittorio stesso.

E’ chiaro che anche le richieste formulate dal pm sono ampiamente motivate, quindi argomentate. Ma non è necessario sforzarsi più di tanto per comprendere come la sua visione della posizione complessiva dell’indagato/imputato sia condizionata dal ruolo che la stessa Costituzione gli affida all’art. 112, comma 1°, Cost., laddove espressamente dice che “Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Nemmeno la Costituzione, cioè, crede alla “imparzialità” del pubblico ministero.

E non potendosi pretendere dal pubblico ministero l’imparzialità e l’interesse alla verità che invece contraddistinguono l’operato del magistrato giudicante, non si può nemmeno pretendere che l’arretramento dei limiti della libertà di critica debba riferirsi anche alle funzioni esercitate dal pubblico ministero. E la giurisprudenza pare d’accordo su questo, se ha riconosciuto il diritto di critica al giornalista che, nel commentare la richiesta di custodia cautelare da parte di un pm, aveva parlato di “diritti fondamentali diventati un optional affidato ai capricci di chiunque” e di “giustizia con la “g” minuscola”.

Ma i più ampi margini che vanno giustamente riconosciuti alla critica nei riguardi del pm, non autorizzano a collocare il suo operato al di fuori di quanto stabilito dalla Costituzione. Se può essere lecito criticare il comportamento di un pm che reitera le sue richieste di custodia cautelare fino a definirle “liberticide”, non lo si può accusare di strumentalizzare la propria funzione per fini estranei a quelli di giustizia. Additare il pm agli occhi dell’opinione pubblica non semplicemente come un funzionario erroneamente convinto della propria ipotesi accusatoria e poco rispettoso dei diritti dell’indagato/imputato, ma come un funzionario infedele che persegue finalità opposte a quelle che il suo ruolo costituzionale gli impone, non può rientrare nel diritto di critica, se le affermazioni non trovano riscontro obiettivo nella realtà.

In particolare, non può ritenersi lecita la critica che descriva un pm come asservito ad interessi politici. L’uso “politico” della giustizia da parte di un pm è esattamente ciò che la Costituzione ha voluto scongiurare ideando un sistema che escludesse qualsiasi interferenza degli organi politici sull’operato della magistratura. Una simile accusa, che evidenzia la massima distorsione della funzione del pm, va rigorosamente provata, pena la violazione del requisito della verità.

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